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Come nel gioco dell’oca, succede di tornare al punto di partenza. Magari a quel 1995, anno in cui lo Stato, fino a quel momento proprietario dell’Ilva, sorta sulle ceneri dell’Italsider, decise di vendere lo stabilimento al gruppo Riva. Era la fine di decenni di acciaio a produzione statale e l’inizio della progressiva ritirata della mano pubblica dall’industria (a stretto giro sarebbero arrivate le privatizzazioni di Alitalia e Telecom). Ora però, la storia si ripete, forse con qualche dubbio in più.

Nella notte, lo Stato è tornato a gestire l’ormai ex Ilva (dal 2018 lo stabilimento più grande d’Europa è in mano al gruppo franco-indiano Arcelor Mittal, dopo l’addio dei Riva in seguito alle inchieste). Poco prima della mezzanotte è stato firmato l’accordo tra Mittal e Invitalia, braccio operativo del Tesoro (100%), che ha sancito ufficialmente il ritorno dello Stato nell’acciaieria. L’accordo prevede un aumento di capitale di Mittal, per 400 milioni di euro che darà a Invitalia il 50% dei diritti di voto. Nel 2022 è programmato, poi, un secondo aumento, che sarà sottoscritto fino a 680 milioni da parte di Invitalia e fino a 70 milioni di parte di Arcelor Mittal. Al quel punto la società pubblica sarà l’azionista di maggioranza con il 60% del capitale dell’acciaieria. Un buon programma? Formiche.net lo ha chiesto a Giuseppe Di Taranto, economista, saggista e ordinario di Storia dell’economia e dell’impresa alla Luiss.

Di Taranto, lo Stato ha rimesso un piede nella grande industria italiana. Le chiedo innanzitutto come valuta l’accordo di questa notte.

Positivamente. E valuto positivamente anche le ragioni che hanno portato a questo accordo. Questa operazione, che è a tutti gli effetti un’operazione industriale, ci dice essenzialmente una cosa. Che certe regole previste dai trattati Ue stanno perdendo forza e potenza. Mi riferisco alle norme sugli aiuti di Stato, previste da Maastricht.

Può spiegarsi?

L’ingresso dello Stato nell’ex Ilva dimostra che l’aiuto di Stato non è più un tabù. Il che è positivo perché stiamo assistendo a una progressiva sospensione delle regole europee. Anche lo stesso Patto di Stabilità è stato accantonato, per il momento. Il che apre la strada a un ripensamento generale di certi vincoli. Fatta questa premessa, l’accordo di questa notte è decisamente positivo.

Che cosa la convince?

Innanzitutto verrà ripresa in mano un’industria storica, al fine di rimetterla in sesto. Lo Stato in questi anni ha perso molti miliardi e credo sia arrivato francamente il momento di recuperarli. Il piano industriale che segue l’accordo, è valido nei limiti in cui è attuabile. Entro il 2023 dovremmo avere un rientro dei lavoratori, circa 2 mila che, nel passaggio da Ilva in amministrazione straordinaria ad Arcelor, sono rimasti in carico alla prima con la promessa di reintegro in fabbrica. In più, una volta a regime, ovvero entro il 2025, l’accordo prevede di mantenere invariato il livello occupazionale con 10mila addetti di cui 8.200 solo a Taranto. Queste sono ottime notizie per i lavoratori e non è un caso che i sindacati abbiano applaudito a un ritorno dello Stato. In più mi sembra un’intesa al passo coi tempi.

Si riferisce agli aspetti ambientali del piano industriale? 

Assolutamente sì. Questo accordo prevede una elevata riduzione delle emissioni e dunque dell’inquinamento, a fronte di un aumento della produzione pari a circa 8 milioni di tonnellate. Questo è fondamentale, ma impone anche una domanda. La Cina per esempio produce acciaio ma di pessima qualità, ma visto che costa meno, conquista il mercato. Anche per questo Mittal è andata in crisi. Ora, c’è da chiedersi se sia meglio portare la produzione di Taranto a 8 milioni di tonnellate oppure lavorare di qualità, ristrutturando la produzione.

D’accordo, ma come la mettiamo con l’opinione internazionale? Voglio dire, uno Stato che esce dalla siderurgia e dopo 25 anni vi rientra, subentrando ai privati, dopo anni di incertezza e indecisione, che messaggio manda agli investitori?

Io credo che si cada spesso in una errata percezione. Si tende a pensare che l’intervento dello Stato nell’economia sia in realtà qualcosa di dannoso e di nocivo. Ma non è così. Una cosa è la collettivizzazione, come accade in Cina, un’altra un’intervento pubblico in un’azienda strategica e a rischio default. Rimessa in piedi l’azienda, a condizioni di mercato, nulla vieta allo Stato di uscire nuovamente e fare una seconda privatizzazione. Qui parliamo della salvezza di un asset, non di un esproprio in stile socialista.

Di Taranto, non è che le nazionalizzazioni stanno tornando di moda, forse fuori tempo massimo?

Non capisco perché in uno Stato democratico e liberale, come l’Italia, si cerchi di vedere a tutti i costi queste operazioni industriali come un qualcosa di socialista, anzi di comunista. Rimettere in sesto un’azienda, facendola tornare a camminare sulle sue gambe, non è qualcosa di anti-storico o obsoleto. Ma di molto ragionevole.

Il nuovo azionista ha una grande sfida dinnanzi. Riportare Taranto e la sua acciaieria ad essere un produttore competitivo nello scacchiere dell’acciaio. Come fare?

Il futuro è nella green economy, la partita si gioca lì. Servono tipologie di produzione che siano il più sostenibili possibile. Questo è l’obiettivo primario.

Una missione alla portata dello Stato italiano. O forse no…

Me lo auguro con tutto il cuore. E comunque, adesso arriveranno 209 miliardi di euro grazie al Recovery Fund, mi pare una leva. Mi spiego, una delle condizioni per l’accesso agli aiuti è la sostenibilità e il rispetto dell’ambiente. Di più, ci sono anche delle condizionalità in termini di attuazione: se un piano, un progetto, viene messo in dubbio dalla Commissione Ue, perché poco rispettoso dell’ambiente, l’erogazione dei fondi per quel progetto si blocca, sentito il parere del Consiglio Ue. Questo è un motivo sufficiente affinché lo stesso Stato-azionista si impegni con tutte le sue forze per un rilancio dell’ex Ilva in chiave esclusivamente green.

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