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In questi ultimi giorni il presidente russo, Vladmir Putin, è stato protagonista di tre passaggi interni che raccontano lo stato dell’arte del suo potere, in difficoltà di prospettiva. Martedì ha firmato una legge che permette a tutti i presidenti russi di godere dell’immunità a vita su tutti i reati commessi. anche mentre non esercitavano l’esercizio istituzionale. La legislazione fa parte degli emendamenti costituzionali approvati quest’estate in una votazione parlamentare che consente a Putin, 68 anni, di rimanere presidente fino al 2036. Il mese scorso questo sull’immunità e altri progetti di legge in sospeso da un po’ hanno suscitato voci secondo cui il leader russo stava pianificando di dimettersi a causa delle cattive condizioni di salute — cosa che il Cremlino ha negato. Nello stessi giorno la Duma ha votato una legge per chiudere sotto chiave tutte le informazioni che riguardano coloro che lavorano nel comparto sicurezza (polizia e intelligence) e giustizia. La legge era già in programma, ma è stata velocizzata dal caso Navalny, dove troppe informazioni poco protette hanno permesso di costruire ai media di ricostruire molto dell’avvelenamento.

Infine il terzo passaggio che riguarda Putin è la sempre molto attesa conferenza stampa annuale. Dell’incontro con i giornalisti è uscito sui media occidentali soprattutto il momento in cui ha usato il sarcasmo da bullo per ricordare al mondo che se i suoi servizi segreti avessero voluto uccidere Alexei Navalny “avrebbero portato a termine il lavoro fino in fondo”. Via usata dal presidente russo per discolparsi dalla vicenda dell’avvelenamento dietro alla quale in realtà è emerso chiaramente il coinvolgimento russo e dunque il fiasco della missione – con cui l’attivista e leader più simbolico dell’opposizione al Cremlino doveva essere ucciso. E invece non è solo rimasto in vita, ma ancora convalescente in una località segreta in Germania ha telefonato a uno degli agenti della squadra che avrebbe dovuto ucciderlo e lo ha ingannato facendogli ammettere non solo la missione ma anche il fallimento della stessa – smentita imbarazzante per l’insolenza del presidente.

Ma la conferenza stampa è stata molto di più, ed è sempre e comunque interessante analizzarla. In quattro ore e 29 minuti di conversazione con una serie di giornalisti selezionati non poteva in effetti solo parlare del “paziente di Berlino”, come lo ha definito Putin senza mai nominarlo (aggiungendo che nessuno aveva interesse nell’assassinarlo). Minimizzare il fatto però affrontandolo, d’altronde se non avesse voluto non avrebbe concesso la domanda sul caso al giornalista amico che gliel’ha posta. Andando oltre, dunque, come ogni anno negli ultimi quindici il presidente russo nella “grande conferenza stampa” ha fatto uno spiegone il cui oggetto era più che altro la narrazione, non tanto la situazione reale. Un ripasso complessivo dello storytelling presidenziale, che però ha mostrato segni di stanchezza.

La stanchezza è in effetti il problema del format: la conferenza stampa è fatta apposta per esaltare la leadership del presidente. È un’esaltazione del culto della personalità dietro a Putin, che dunque risente anche della crisi di prospettiva. Perché il format più stanco è quello rappresentato dalla presidenza russa, che come secondo modifiche costituzionali per diversi anni ancora non cambierà protagonista, ma è evidente che il destino è la sua fine e per ora non si vedono senso e forme di continuità. Oltre all’assenza di un’alternativa, o un’eredità chiara, manca anche la possibilità di far riprendere la Russia – in crisi economica già prima del Covid, colpita poi pesantemente dagli effetti della pandemia, con un tessuto sociale da ricucire e una serie di guai ai confini che fanno preoccupare per la tenuta futura dell’intero sistema.

“Mi chiamano dalle regioni per dirmi che non è stata mai così dura in Russia”, ha dovuto ammettere Putin mentre cercava di convincere il pubblico televisivo (gli ascolti non sono stati pessimi, ma è più abitudine e rispetto che reale affidamento) che la crisi economica post-Covid era meno forte che altrove. La questione delle regioni è importante, perché Mosca ha cercato di usarle come cuscinetto per assorbire le negatività popolare legata alla pandemia e ai lockdown. Un modo per tenere a distanza gli effetti più duri, possibilità per poter proteggere il potere centrale (per esempio, alle regioni è stata sempre affidata la decisione sulle chiusure, uno degli aspetti socialmente più delicati dell’epidemia; mentre il governo centrale era il luogo di successo sanitario, fino ad arrivare al vaccino “Sputnik 5”).

Poi le questioni esterne: Putin ha parlato di Bielorussia, Nagorno-Karabakh e Moldova, dossier molto delicati che toccano paesi che Mosca considera il proprio cortile casalingo, e dunque diventano complicate per la casa stessa come incendi che dall’esterno possono propagarsi rapidamente all’interno delle mure domestiche. Ha difeso Aleksander Lukašenka, ricordando che “ha avviato la modifica della costituzione” e sta procedendo in modo positivo davanti alle proteste – represse – nei mesi passati; il presidente russo ha ricordato che però non tollera intromissioni dall’esterno, interferenze (dall’Ue sostanzialmente) che ritiene problematiche per la sua stabilità. Poi sul conflitto azero-armeno ha detto che il diritto internazionale dà ragione all’Azerbaigian (vincitore de facto della guerra anche perché Putin ha deciso, per interessi diretti e bilanciamento con la Turchia, di spostarsi più verso Baku abbandonando Yerevan).

Sempre su aspetti che toccheranno la Russia da fuori: Putin ha parlato del presidente eletto Joe Biden, con cui è noto non ha mai avuto troppo feeling fin dai tempi dell’amministrazione Obama. “Ha grande esperienza, contiamo di risolvere con lui, se non tutti, parte dei problemi”, ha detto il russo, consapevole che in realtà la postura nei confronti di Mosca è un’incognita del nuovo corso statunitense, ed è possibile una forma soft di riallaccio, ma anche una linea bene più severa dell’attuale – e di certo vicende come l’attacco hacker per cui gli Usa accusano finora informalmente le unità clandestine del Cremlino, non semplificano le cose. Poi l’Ue: il futuro dei rapporti dipende dagli Usa, ma – in un’Europa che cerca almeno retoricamente la sovranità strategica – dipende anche da una serie di bilanciamenti tra i vari paesi (Germania e Francia su tutti).

Rispondendo all’inviato della BBC ha parlato dell’Occidente, “siete persone intelligenti, perché ci prendete per scemi” ha detto mentre criticava la presunta superiorità occidentale. Niente sulla Cina. Importante perché delinea una prospettiva: Mosca e Pechino hanno avuto un avvicinamento funzionale negli ultimi anni. Hanno cercato contatti sfruttando quella che sentono – in parte giustamente – come avversità occidentale. Ma la Russia ha dimostrato in svariate occasioni di non fidarsi della Cina. La teme; teme che lo sviluppo spinto del Dragone possa fagocitarla. È qui che secondo una serie di teorici politici si basa la possibilità di riagganciare l’Orso. Portare la Russia verso Occidente per evitare che scarrelli del tutto verso la Cina. Mutuo interesse, processo molto complesso in cui Biden avrà un ruolo insieme all’Ue.

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