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Chi segue con attenzione, e soprattutto con il cuore, le vicende quotidiane di Hong Kong conosce fin troppo bene la sensazione ormai abituale di andare al letto nella consapevolezza di svegliarsi la mattina seguente con ulteriori cattive e tristi notizie. Non era diverso questa mattina. Dopo la condanna di ieri di Joshua Wong, Agnes Chow e Ivan Lam, oggi l’arresto dell’editore pro-democrazia dell’Apple Daily — sul quale sono orgogliosa di poter scrivere — Jimmy Lai. Accusato di frode — un’accusa che molto ricorda quelle portate avanti contro Ai Weiwei, simbolo della Cina continentale per la democrazia, come ci ricordava il corrispondente di Radio Radicale Francesco Radicioni questa mattina — gli è stata negata la libertà su cauzione e dovrà aspettare il processo previsto per il 16 aprile in carcere.

Difficile non cedere alla disperazione dinnanzi a questo continuo senso di profonda tristezza mentre si assiste all’incarcerazione, una a una, di persone conosciute tramite la comune lotta per la libertà, per la democrazia, per lo stato di diritto. Per valori e principi che dovrebbero essere una certezza per ogni singolo individuo nel mondo dopo la loro affermazione universale a seguito dello scempio e le tragedie delle due guerre mondiali nel secolo scorso.

Ma il coraggio loro, la forza di persone come Agnes — definita la “dea della democrazia” dalla stampa giapponese e che “celebra” oggi il suo ventiquattresimo compleanno dietro le sbarre — la fermezza dello staff dell’Apple Daily di non voler cedere e di continuare fin quando gli sarà permesso — fin quando non saranno dietro le sbarre tutti —, non ci permettono di cedere.

Il profondo dolore che proviamo per la sorte riservata a questi compagni di lotta, questi amici di sventura, va trasformato in azione quotidiana, spostando anche un singolo millimetro al giorno nella direzione giusta, non permettendoci mai di cedere, di dimenticare.

In questo si svela una profonda questione per l’Occidente, per il mondo delle democrazie. Quel mondo che sulla carta continua ad affermare i principi negati ai giovani di Hong Kong, agli uiguri, ai tibetani, a tutte le minoranze etniche-religiose-linguistiche e ai cittadini cinesi in generale. Un mondo che da tempo perde terreno nell’ambito globale, all’interno delle istituzioni delle Nazioni Unite e che troppo spesso assiste inerme allo scempio continuo dei più gravi abusi dei diritti umani in varie — tropei — parti del pianeta.

Eppure qualcosa si muove. È di ieri la notizia che gli ambasciatori degli Stati membri dell’Unione europea hanno dato il loro consenso al nuovo EU Global Human Rights Sanctions Regime, l’equivalente del Magnitsky Act statunitense, che permetterà all’Unione europea di imporre sanzioni individuali contro chi si macchia di violazioni dei diritti umani con divieti di viaggio e congelamento dei patrimoni. Che tali sanzioni siano più efficaci delle sanzioni globali su un Paese — non colpendo la popolazione intera — lo dimostra non solo la ferma opposizione, persino violenta, di regimi intorno al mondo. Ma lo ha confermato ancora la settimana scorsa Carrie Lam, capo dell’esecutivo di Hong Kong, quando ha affermato di dover tenere pile di contanti a casa perché nessuna banca — neanche quelle cinesi! — le vuole concedere di aprire un conto.

Proviamo a immaginare l’imposizione di un tale regime di sanzioni in modo unito e coordinato dai partner atlantici e altri Paesi in una vera e propria alleanza di democrazie. La settimana prossima, per la Giornata internazionale dei diritti umani del 10 dicembre, è previsto l’accordo finale e formale del Consiglio europeo sulla proposta. Creerà un momentum da cogliere immediatamente per assicurare che tale unità e coordinamento ci sia fin da subito, con l’aiuto e la pressione da parlamentari di tutti gli Stati membri per far sì che l’implementazione effettiva e la designazione dei nomi ai quali imporre tali sanzioni avvenga velocemente.

Come ci dimostra il caso australiano oggi, non è questione soltanto di occuparsi dei diritti altrui, in Paesi lontani: è anche profonda questione di difesa dei nostri sistemi, dei nostri valori, delle nostre libertà e sovranità. Se lasciamo che la Repubblica popolare cinese possa impunemente attaccare un Paese alleato come l’Australia attraverso il blocco delle esportazioni, solo perché aveva alzato la voce sulla situazione dei diritti umani e chiesto un’indagine internazionale indipendente sulle origini e la gestione iniziale della pandemia Covid-19, o attraverso la creazione e la diffusione di fake news allucinanti da parte di organi ufficiali del Partito comunista cinese, deve essere evidente per ciascun Paese che nessuno sarà salvo. Ne è dimostrazione già l’ennesima operazione di calunnie propagandistiche nei confronti anche dell’Italia, imputata per la seconda volta di essere la fonte dell’attuale pandemia.

Non possiamo e non dobbiamo cedere a tali operazioni. È arrivata — se non già passata — l’ora in cui occorre urgentemente un fronte unito nel mondo democratico, che possa e voglia agire dinnanzi all’assassinio della libertà in corso. Per quanto il Partito comunista cinese sia riuscito a nascondere a buona parte del mondo quanto accade in Tibet o nello Xinjiang, gli ultimi barlumi di libertà a Hong Kong dimostrano con chiarezza quanto sta avvenendo. Dalle parole, dal monitoraggio — a distanza, visto il diniego di entrare sul territorio a esperti internazionali sia sulle violazioni dei diritti umani sia per l’indagine sul Covid-19 — dobbiamo passare all’azione. Certamente non è il momento di concedere ulteriori regali al Partito comunista cinese, come sui negoziati di un accordo sugli investimenti tra l’Unione europea e la Repubblica popolare, nella speranza di poter effettuare un cambiamento attraverso le concessioni di buona volontà.

Il Partito comunista cinese dimostra ogni giorno la sua arroganza nel violare in modo evidente gli accordi internazionali sottoscritti, siano essi sul piano economico, sul piano sanitario, sul piano dei diritti umani. Viola ogni singolo giorno le sue stessi leggi e la sua stessa costituzione. Ha imposto delle leggi sulla sicurezza e sull’intelligence che non solo hanno valenza universale, ma che sono in diretta violazione delle leggi nazionali di Paesi terzi che governano i cittadini e le imprese operanti sul suo territorio. Ogni singolo giorno lancia minacce esplicite contro singoli Paesi democratici, contro politici stranieri, contro attivisti.

Non è d’obbligo sottostare a questo regime. Quel che i giovani volti del movimento di Hong Kong ci ricordano è che volere è potere. L’inerzia politica non è una legge imposta dalla fisica, è una scelta. Per loro, e con loro, abbiamo la possibilità e il dovere di agire, passo dopo passo, affinché le frasi “non dimenticheremo” e “mai più” siano trasformate in realtà. Affinché il potere e il controllo di Pechino non si espandano in ogni angolo del mondo.

Il caro amico Sam Goodman di Hong Kong Watch mi scriveva questa mattina: “Gotta lose yourself in action, otherwise you will fall into a pit of despair” (“Ti devi perdere nell’azione, sennò cadrai nella disperazione”). Sono le parole che gli rivolse John Lewis, già membro del Congresso americano, e leader nonviolento del movimento per i diritti civili, morto a luglio di quest’anno. Che siano le parole d’ordine che ci accompagnino ad ogni risveglio nei prossimi giorni, nei prossimi mesi. #StandWithHongKong

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Le frasi “non dimenticheremo” e “mai più” siano trasformate in realtà affinché il potere e il controllo di Pechino non si espandano in ogni angolo del mondo. L’appello di Laura Harth (Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”)

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