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Un rapporto intricato e complesso, quello tra criminalità organizzata e organismi di potere russi, che va indietro nel tempo, almeno fino alla tarda età sovietica. Ma che vede il momento della svolta, con la caduta dell’Urss e la transizione post-sovietica, durante il quale le mafie euroasiatiche sfruttano l’occasione favorevole per crescere esponenzialmente. Anche sfruttando l’integrazione di funzionari dei servizi di sicurezza dello stato russo, i quali fornirono non solo una preziosa expertise ma anche un punto di contatto non solo con gli apparati del sistema interni alla Federazione, ma anche con l’estero. La criminalità organizzata si ritaglia così una posizione solida nell’universo di potere che orbita attorno al Cremlino, posizione che mantiene tutt’oggi. Anche perché così essa è più facilmente sfruttabile dalla stessa classe dirigente russa nel condurre le proprie operazioni ibride, come dimostrano i casi della Solntsevskaya e della Tambovskaya.

A denotare questa evoluzione è Luigi Sergio Germani, direttore dell’Istituto Gino Germani, in occasione del convegno dal titolo “Criminalità organizzata e minaccia ibrida russa: come i servizi segreti russi utilizzano le mafie per destabilizzare le democrazie occidentali”, organizzato dall’Istituto stesso (con la media partnerhsip di Formiche) e tenutosi il 27 novembre presso la Casa dell’Aviatore, preziosa occasione per fare il punto su quali siano oggi i rischi e le possibili metodologie di contrasto per un fenomeno tutt’altro che secondario.

Che evidenzia come nella Russia post-sovietica denaro e potere politico siano ormai indistinguibili. Una caratteristica facilmente individuabile anche al di fuori della dimensione della criminalità organizzata: la Russia è quel Paese in cui figure senza alcuna esperienza diplomatica come Kirill Dmitriev, ex capo del fondo sovrano russo e uomo di fiducia dell’élite, diventano protagonisti dei negoziati sull’Ucraina proprio perché rappresentano la logica patrimoniale del sistema. In Russia, ciò che l’Occidente definisce “corruzione” è in realtà la grammatica stessa del governo, come nota Donald Jensen, adjunct fellow presso la Foundation for Defense of Democracies e docente presso la John Hopkins University, evidenziando la debolezza della rule of law e la personalizzazione dell’autorità come fattori alla base di questo peculiare contesto, in cui l’attività criminale è non solo tollerata ma sfruttata, e di conseguenza stimolata.

Soprattutto guardando all’estero. Inchieste giornalistiche ed indagini giudiziarie mostrano quanto radicata sia la presenza di gruppi criminali russi in Europa e in Italia. Dal contrabbando di armi (prodotte da impianti legittimi ma senza numero di immatricolazione, evidente prova dell’intenzionalità di questa azione) al radicamento sul territorio, l’azione di queste cosche risulta variegata e multiforme, segnalando la loro capacità di adattarsi a svolgere compiti di diversa natura. Una caratteristica fondamentale, per un impiego come “operativi” di prima linea in territorio avversario. Perché è proprio questo il ruolo che queste reti hanno nella visione strategica del Cremlino: organizzazioni parallele con una loro catena di comando che all’occorrenza si inserisce in una più ampia gerarchia operativa, così da massimizzare la loro efficacia nel condurre azioni di destabilizzazione, secondo dettami dottrinari già prominenti in epoca sovietica.

Nell’arsenale ibrido e non lineare di Mosca la criminalità organizzata rappresenta dunque un tassello estremamente importante, al pari delle forze convenzionali, di quelle paramilitari, delle operazioni cibernetiche e della propaganda. E il contrasto questo fenomeno è una questione di sicurezza nazionale, che deve essere perseguita sia sul territorio italiano che all’estero, sfruttando gli strumenti e l’expertise di cui dispongono i nostri apparati di sicurezza.

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