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È possibile una pace tra Armenia e Azerbaijan sulla regione contesa del Nagorno Karabakh? È la domanda che Judy Dempsey, non-resident senior fellow di Carnegie Europe e direttore di Strategic Europe, ha rivolto a 14 esperti delle relazioni internazionali e della regione caucasica. Le risposte sono piuttosto diverse tra loro, tra chi attribuisce le colpe degli scontri recenti alla Turchia, troppo assertiva nel sostegno all’Azerbaijan, e chi pone l’accento sulle responsabilità della Russia, ambivalente nel rapporto con Yerevan e Baku. Unanime il giudizio nei confronti del Gruppo di Minsk, la struttura presieduta da Francia, Russia e Stati Uniti a cui l’Osce ha affidato la disputa nel 1994: una vero e proprio fallimento. In sintesi, nel breve periodo si può auspicare solo un cessate-il-fuoco a forte ascendente internazionale (magari con intervento dell’Onu). Nel lungo periodo, una pace sostenibile sembra possibile solo se cambiano le narrative inconciliabili che Armenia e Azerbaijan conservano sulla disputa.

COSA MANCA PER LA PACE

Il professor Carey Cavanaugh della Patterson School of Diplomacy del Kentucky, Stati Uniti, spiega quali sono i tre elementi necessari alla pace: primo, la volontà delle rispettive leadership a lavorare per un compromesso; secondo, il supporto internazionale alla sua implementazione; terzo, la preparazione delle popolazioni locali all’accettazione della soluzione. Una sfida “che intimorisce”, spiega Cavanaugh, ma possibile e soprattutto “obbligata”. Tre passi li suggerisce anche Thomas De Waal, giornalista britannico esperto di Caucaso e senior fellow a Carnegie Europe. Si parte con l’impegno dei co-presidenti del Gruppo di Minsk (anche attraverso velate minacce) a fare in modo che le parti onorino quanto concordato a Vienna nel 2016 dopo i violenti scontri di quell’anno. Poi, come suggeriva su queste colonne None Mikhelidze dello Iai, si può immaginare l’invio di un’operazione di peace-keeping.

UNA NARRATIVA DA CAMBIARE

Terzo, spiega De Waal, bisognerebbe promuovere una “terza narrativa”, che spieghi come Baku e Yerevan “non siano destinate a essere eterne nemiche”. Sul punto pare concorde Stefan Meister, a capo dell’ufficio di Tbilisi, in Georgia, della Heinrich Boell Foundation. Nel lungo periodo, spiega l’esperto, una soluzione è possibile solo quando la disputa uscirà dall’equilibrio di potenze in cui è coinvolto il Caucaso meridionale. Allora, quando “le élite politiche finiranno di strumentalizzare il conflitto e inizieranno una discussione onesta in entrambi i Paesi sulle radici della guerra”, la pace sarà davvero possibile.

UNA PACE IMPOSSIBILE

Nel frattempo, spiega il direttore del think tank armeno Caucasus Institute Alexander Iskandaryan, tra elezioni americane, pandemia e crisi bielorussa, “il Caucaso meridionale non è una priorità della comunità internazionale e non c’è ragione per aspettarsi un intervento esterno” che non siano appelli al cessate-il-fuoco. La risposta dell’esperto alla domanda di Judy Dempsey è piuttosto negativa: “a meno che il combattimento non evolva in una nuova guerra di trincea, terminerà solo seguendo la logica della guerra, non quella della politica o della pace”. Pessimista anche Eldar Mamedov, consigliere per la politica estera del Gruppo Socialisti&Democratici dell’Europarlamento, secondo cui “una pace sostenibile in questo momento non è possibile”, considerando che le due parti hanno nozioni di pace “radicalmente incompatibili”. L’unica via sarebbe dunque l’imposizione dall’esterno di un cessate-il-fuoco, magari attraverso una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

GUERRA TRA RUSSIA E TURCHIA

Alla stessa conclusione arriva Dmitri Trenin, direttore del centro di Mosca di Carnegie. Considerando che la Russia è legata all’Armenia dagli accordi della Csto (che potrebbero costringerla a un intervento difensivo), l’ex membro dell’intelligence russa propone una nuova domanda a Judy Dempsey: è possibile la guerra tra Russia e Turchia? “Per ora – risponde lui – sono riluttanti a combattersi”. Dunque, “mentre la guerra non promette la vittoria a nessuna delle due parti e la pace rimane sfuggente, il cessate-il-fuoco e le sue violazioni periodiche sembrano il futuro, o il passato”.

INTERESSI PESANTI DALL’ESTERNO

Secondo Leila Alieva, ricercatrice azera affiliata all’Oxford School of global and area studies, la pace è raggiungibile solo facendo venir meno la dipendenza del Caucaso meridionale dalla Russia. “Ventisette anni di dominazione russa sul Caucaso hanno chiaramente dimostrato che questa non rappresenta un fattore di stabilizzazione, ma di controllo”. E così, aggiunge, “occorre cambiare il formato dei negoziati e la composizione dei mediatori”. Una prospettiva condivisa da Laurence Broers, direttore del programma Caucaso del Conciliation Resources di Londra, secondo cui la pace è possibile solo quando Armenia e Azerbaijan affronteranno la questione “da Stati sovrani” e non da “province di un impero più grande”.

LE COLPE DI MOSCA…

Non ha dubbi sulle responsabilità russe John C. Kornblum, senior counsellor di Neor Lpp, studio legale paneuropeo con base a Monaco di Baviera. “Invece di essere mediatore, la Russia alimenta spesso le fiamme della disputa”. Secondo Kornblum non è un caso che la violenza sia esplosa mentre Vladimir Putin è alle prese con “due guai in casa” (Navalny e pandemia) e nel momento in cui “i suoi rapporti sono ai minimi storici”. Il presidente starebbe mandando un messaggio all’Occidente: “O lavorate con me, o posso mettere a fuoco la regione”. Sulla Russia pone l’accento anche Marc Pierini, visiting scholar a Carnegie Europe: “Ha ha una forte relazione militare con l’Armenia, ma fornisce armi all’Azerbaigian” e conserva “il potere di far smettere le due parti di combattere”. Se lo utilizzerà o meno dipende “dalla complessa relazione con Ankara”, unico Paese “ad aver assunto un atteggiamento conflittuale nelle attuali ostilità tra Armenia e Azerbaijan”, fornendo alle forze azere armi e, “probabilmente”, anche combattenti jihadisti dalla Siria.

…E DI ANKARA

Colpe turche anche per Gerard Libaridian, storico armeno (e americano), già consigliere dell’ex presidente armeno Levon Ter-Petrosyan: “La partecipazione diretta della Turchia a questo round (di una disputa storica, ndr) ha ulteriormente complicato un conflitto già difficile; per Azerbaigian, Armenia e Turchia, il conflitto ora è una questione di onore, identità nazionale e legittimazione del potere, ma per il Nagorny Karabakh è anche esistenziale”.

LE POSIZIONE DI BAKU E ANKARA

Sostiene invece la tesi di Baku Emin Milli, attivista per i diritti umani dell’Azerbaijan che vive però in esilio in Germania: “La più veloce e realistica possibilità per l’Armenia di avviare nuovi colloqui di pace è mostrare la buona volontà e restituire diversi territori occupati”. Parole in linea con quelle di Sinan Ülgen, presidente di Edam, think tank con base a Istanbul, che riprende le accuse turche (sollevate più volte da Recep Erdogan negli ultimi giorni) per il Gruppo di Minsk: “È diventato essenzialmente una parodia della diplomazia internazionale”, dimostrando in trent’anni “l’inefficacia della diplomazia multilaterale”. E così, afferma Ülgen, “se deve emergere una soluzione pacifica, la comunità internazionale dovrebbe essere più seria nel far rispettare i termini delle decisioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e cercare di porre fine a questa occupazione”.

E GLI STATI UNITI?

Infine, a puntare i riflettori sugli Stati Uniti ci pensa Paul Stronski, senior fellow presso Carnegie Endowment for International Peace. “Washington – spiega – potrebbe normalmente provare a usare la sua influenza su Baku, Yerevan e Ankara” per fermare gli scontri. “Ma gli Stati Uniti sembrano assenti in quest’ultima crisi – aggiunge – e questa non è una sorpresa, data la politica estera disfunzionale dell’amministrazione di Donald Trump e il graduale ritiro Usa dalla regione nell’ultimo decennio”.

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