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Sulla morte di Ayman al Zawahiri, medico egiziano leader di al Qaeda, ci sono diverse informazioni tranne una: l’annuncio ufficiale del gruppo jihadista fondato da Osama bin Laden. L’ufficialità dunque, finché l’organizzazione non si esprime definitivamente, mancherà: tuttavia da circa una settimana si sono fatte sempre più solide le prove a sostegno di una morte avvenuta per cause naturali più o meno una mesata fa.

CHI ERA

L’ultima apparizione l’11 settembre – per ricordare il più grande successo del gruppo terroristico, il 9/11 che ha cambiato per sempre la percezione del radicalismo islamico, e rinvigorire i seguaci. Sessantanove anni, secondo una delle più solide di quelle fonti – Arab News, media pakistano che ha agganci tra le intelligence locali e afghane – sarebbe morto in Afghanistan. Forse soffriva da tempo di un male all’apparato respiratorio, dicono alcune ipotesi rilanciate sui social network; forse soffriva semplicemente di asma ed è morto perché, vivendo nascosto nella zona più remota del Paese (il Waziristan, al confine col Pakistan), non aveva accesso a cure regolari.

Un paradosso, per lui, medico chirurgo e figlio d’arte. Nato al Cairo il 19 giugno 1951, Zawahiri proviene infatti da una rispettabile famiglia borghese di medici e studiosi. Suo nonno, Rabia al-Zawahiri, era il grande  imam di al-Azhar, il centro della cultura islamica sunnita in Medio Oriente, mentre uno dei suoi zii era primo segretario generale della Lega araba.

LA SECONDA MORTE ILLUSTRE IN POCHI GIORNI

Per commemorare uno dei personaggi storici della guerra jihadista, unitosi alla Jihad islamica egiziana nel 1973, ci sarebbe stata una cerimonia di commemorazione a cui avrebbe partecipato una stretta élite qaedista. Chi certamente non c’era alle presunte esequie del leader era Abu Muhammad al-Masri, considerato il numero 2 di al Qaeda fino a sabato scorso, quando il New York Times ha fatto uscire la notizia della sua uccisione durante un’operazione eseguita dal Mossad israeliano (e studiata insieme alla Cia). Freddato per le strade di Teheran il 7 agosto.

La morte di al Masri unita a quella di Zawahiri apre lo scenario della successione al vertice dell’organizzazione – che sebbene gli anni scorsi sia stata superata sul piano dell’attività (e delle brutalità) dallo Stato islamico, diretto concorrente qaedista nel campo della lotta radicale islamica, resta comunque in cima alle preoccupazioni delle agenzie di counter-terrorism di tutto il mondo. Senza Zawahiri e al Masri, con Hamza bin Laden – il figlio a cui Osama aveva aperto un trust sul business jihadista – ucciso lo scorso anno in un raid statunitense, il prossimo leader con ogni probabilità sarà Sayf al Adel.

IL SUCCESSORE

Vero nome Mohammed Ibrahim Makkawi, nato – secondo l’Fbi – l’11 aprile del 1960; noto anche come Umar al Sumali durante gli anni in cui addestrava i ribelli somali a combattere le forze onusiane anti-rivoluzionarie; anche lui egiziano; anche lui membro della Jihad islamica egiziana fin dagli inizi; da sempre considerato uno degli intimi di bin Landen; operativo esperto degli esplosivi (competenze acquisite mentre era nell’esercito egiziano, scalato fino al rango di colonnello). Al Adel era membro del majlis al shura fino dal 1998, quando dopo poco dalla fondazione l’organizzazione lanciò quello che – 9/11 a parte – fu il più sanguinoso degli attacchi conto l’Occidente: la doppia strage alle ambasciate statunitensi di Kenya e Tanzania.

Dopo l’11 settembre, lasciò l’Afghanistan per l’Iran, destinazione sicura in cui per lunghi anni hanno vissuto (e vivono ancora, come dimostra il caso di al Masri) diversi leader del gruppo. La Repubblica islamica sciita è ideologicamente nemica esistenziale del sunnismo radicale qaedista, ma a Teheran risiede una teocrazia pragmatica: offrire protezione agli alti papaveri di al Qaeda permette di creare un sistema di protezione – il gruppo non avrebbe attaccato il territorio iraniano, che dà rifugio ai suoi capi – e costruire un asset da gestire conto i nemici regionali (come i regni del Golfo, che al Qaeda e e gli altri gruppi jihadisti sunniti considerano nemici peggiori dell’Iran).

Nel 2010 veniva segnalato in Waziristan in un pezzo dello Spiegel, tornato in Iran l’anno successivo secondo l’Associated Press, o forse non ha mai lasciato il paese (un’analisi sulla sua attività l’hanno redatta gli esperti di Long War Journal). Di lui è parlato nel caso di uno scambio di prigionieri di cinque anni fa, che ha coinvolto la filiale yemenita ed è stato mediato dall’Iran – che in Yemen ha una presenza connessa ai ribelli Houthi. Nel 2016 veniva considerato come il coordinatore della campagna siriana anti-regime in cui la filiale qaedista locale, al Nusra, era tra i gruppi più attivi – lasciato viaggiare, secondo alcuni, per rendere complicato l’intervento russo e per dare spazio alla costruzione di un’opposizione schiacciata sui jihadisti, elemento necessario per favorire la repressione assadista.

Daniele Raineri, giornalista del Foglio e tra i massimi esperti di gruppi jihadisti in Italia, ha condiviso nella sua pagina Facebook una foto di al Adel condivisa tra i tanti messaggi propagandistici che al Qaeda diffonde tramite Telegram per spingere il proselitismo online.

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