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Con il trascorrere del tempo, dovremmo sentirci tutti più europei, piuttosto che francesi, tedeschi o italiani. Puntare più sul multilateralismo continentale, che non su una visione autarchica, che non ha prospettive. Più sulla logica dell’approfondimento – quell’unione sempre più stretta tra i popoli, prevista dall’articolo 1 del Trattato – che non sull’allargamento, che ha dominato questi ultimi anni. E non per scelta ideologica. Ma riflettendo sulla crisi della seconda fase della globalizzazione, che stiamo vivendo: così simile, nel suo epilogo, a quella della prima. Quella degli inizi del ‘900 segnata dal disumano conflitto imperialista, la Grande guerra e l’epidemia di “spagnola”. Analogie che dovrebbero far riflettere.

Se si esclude il ritorno all’autarchia nazionalista, una sorta di cultura da “strapaese”, che fu una corrente culturale, seppure minoritaria, dell’epoca fascista: tutta contro la vocazione imperiale di Benito Mussolini. Allora non resta che puntare su un’Unione europea diversa da quella che abbiamo conosciuto. Più solidale nell’affrontare le sfide collettive, a partire dalla pandemia. Più tollerante rispetto a regole finanziarie sagomate finora nell’interesse dei grandi santuari economici o finanziari. O sulle paure di un lontano passato. Con leadership più calibrate sui temi dell’egemonia, piuttosto che su quelli della semplice supremazia.

Se questo è il contesto, le parole di David Sassoli, nei confronti della crisi italiana, appaiono di una gravità eccezionale. Se il presidente del Parlamento europeo non riesce a togliersi la casacca del militante politico e sparare a zero non solo sui suoi avversari, ma sui suoi ex alleati, come dovrebbe reagire un semplice cittadino? Specie se non si occupa di politica, ma vive nella sua ordinaria quotidianità. Penserebbe, com’è probabile, che Bruxelles altro non è che un’appendice lontana, non solo dal punto di vista geografico. Una creazione artificiale in cui solo le politiche nazionali, con i loro conflitti, hanno diritto di cittadinanza.

Ma che cosa aveva detto il presidente del Parlamento europeo per sollevare tante polemiche, soprattutto la dura reazione della Lega? “La stabilità dell’Italia è un bene prezioso anche per l’Unione europea”. E fin qui ci siamo. Cosa dovrebbe preferire l’Ue? Il suo contrario, la non governabilità, lo scontro all’arma bianca tra le varie forze politiche? Sennonché poi aveva aggiunto: “Siamo sicuri che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e le forze di governo sappiano superare questo momento di difficoltà proteggendo gli italiani dall’irresponsabilità.”

A parte l’irrituale endorsement a favore di Giuseppe Conte, in procinto di recarsi in Parlamento e poi, eventualmente, al Quirinale per rassegnare le dimissioni, è l’accusa di irresponsabilità, evidentemente rivolta contro Matteo Renzi e il gruppo di Italia Viva, a far storcere il naso. Ma come si permette il presidente del massimo organo rappresentativo della realtà europea a parlare in questo modo: nei confronti di un leader o di un gruppo parlamentare italiano? Sembrerebbe quasi che il suo passato di giornalista d’assalto della Rai, abbia, purtroppo preso il sopravvento, rispetto all’allure di una carica bipartisan.

Tra l’altro Sassoli dà per scontato, ciò che scontato non è. Non è detto, infatti, che la crisi si risolverà con il trionfo di Giuseppe Conte, grazie all’aiuto dei “senza terra”. Quel gruppo di responsabili che dovrebbero materializzarsi, ma che, almeno al momento, si guarda bene dall’uscire allo scoperto. Il che fa dire ad Aldo Cazzullo, nell’editoriale de Il Corriere della sera: “Se da questa crisi uscirà un governo migliore, in grado di offrire garanzie sia ai cittadini sia agli alleati europei che ci hanno aperto una linea di credito, questi giorni affannosi saranno serviti a qualcosa. Altrimenti alla classe politica – tutta intera – deriverà un discredito da cui sarà difficile riprendersi”. In altre parole: situazione del tutto aperta; per cui il tifo deve essere a favore dell’Italia tutta e non di questo o quel contendente.

C’è poi un’aggravante. A Bruxelles si fa presente che le regole europee impongono ai vertici delle varie istituzioni di non intervenire sulle vicende interne dei singoli Paesi. Esiste in altre parole una consuetudine che dovrebbe essere rispettata, onde evitare possibili reazioni. Non solo da parte di coloro che militano sul fronte opposto. Vi sono alcune organizzazioni no-profit, come The good lobby, che in passato hanno alzato la voce, anche quando Ursula Von der Leyen era intervenuta troppo platealmente a favore dei cristiano-democratici polacchi, impegnati in campagna elettorale. Reazione che aveva indotto la stessa Commissione europea a farsi promotrice di una riforma di quello stesso Codice di condotta che, già oggi, impone ai singoli commissari di astenersi dall’intervenire sulle vicende politiche interne dei Paesi membri.

Vincolo che evidentemente non è sfuggito a Paolo Gentiloni. Interpellato sullo stesso argomento, si è limitato a dire: “Non c’è dubbio che per definizione ci auguriamo sempre di avere degli interlocutori stabili e di avere come interlocutori governi che condividano le sfide comuni europee”. Da questo punto di vista, ha continuato: l’europeismo “è stato uno dei segni caratteristici del governo nato a settembre 2019. Un pezzo di identità di questo governo è stata la scelta europea”. Raggiungendo, così, il limite: quel muro invalicabile, che lui stesso ha voluto esplicitare: “E qui mi fermo, faccio sedute di training autogeno per evitare di andare oltre in questi discorsi”.

Prese di posizione che altrimenti farebbero male non solo al proprio Paese, ma alle stesse istituzioni per le quali si è stati chiamati ad operare.

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