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Parlando dal salotto intellettuale del Valdai Club, ci ha provato di nuovo il presidente russo Vladimir Putin a mettere pressioni sul Nagorno-Karabakh al fine di arrivare a un cessate il fuoco reale e magari duraturo a suo piacimento. “Più di duemila persone sono morte su entrambi i lati del conflitto in totale siamo a cinquemila vittime”, ha detto ieri, aggiungendo che la posizione di Mosca è neutrale, e rivelando che lui è in contatto continuo  “tutti i giorni e più volte al giorno” con i leader di Armenia e Azerbaigian, i due Paesi che si contendono la regione a maggioranza armena-cristiana ma enclave amministrativa azero-musulmano.

Putin ha spiegato che sia Baku che Eravan sono “partner uguali”, svelando uno dei punti chiari dietro a questa nuova fiammata degli scontri iniziata settimane fa: la Russia non ha nessuna intenzione di far valere i trattati di cooperazione (anche militare) con l’Armenia, perché ritiene l’Azerbaigian (Paese ricco, di riserve, quanto strategico) un interlocutore con cui non vuole di certo fare una guerra – soprattutto in questi giorni in cui il Tap. A tal proposito, il presidente russo ha anche parlato dell’omologo turco, Recep Tayyp Erdogan: “Non importa quanto adesso sia su posizioni rigide, lui è un uomo flessibile e io posso lavorarci insieme”.

Fotografia della situazione da leggere fra le righe: la Turchia, che protegge l’Azerbaigian su base dogmatica (continuità etnica al punto che i due paesi si considerano uno solo), è per Putin un punto di contatto certo. Significa che il russo intende risolvere la crisi con Ankara, paese con cui condivide già sfere di intervento e influenza (vedere la Siria o la Libia, ma anche i Balcani e chiaramente l’intero Caucaso), senza altre presente – che lui considera interferenze.

“[Erdogan] è una persona affidabile e un uomo di parola, puntargli il dito contro non porterà a nulla di buono”, dice Putin mentre sottolinea che adesso loro due vedono semplicemente le cose in modo diverso. Queste parole sono un attacco all’Europa, che ha minacciato di sanzionare la Turchia per il ruolo di spinta (tecnico militare, politica e diplomatica) all’Azerbaigian.

Le considerazioni di Putin hanno valore profondo e stanno a significare che al di là di Russia e Turchia, tra Armenia e Azerbaigian c’è spazio solo per attori di secondo piano. Che siano l’Europa o gli Usa, l’Onu o l’Osce che oggi, mentre attaccava indirettamente Ankara per “il coinvolgimento di parti esterne”, ha lamentato che nonostante il pressing diplomatico e alcuni traguardi raggiunti, come le dichiarazioni del 10 e del 17 ottobre per una tregua umanitaria e uno scambio di prigionieri, i combattimenti continuano da entrambe le parti.

Il rilancio a Putin, e la risposta indiretta all’Osce, è arrivata oggi dalle pagine di Hurriyet, dove Erdogan ha rivendicato “lo stesso diritto” della Russia nell’essere coinvolto nella soluzione, “e su questo non ho visto finora un approccio negativo della Russia” ha aggiunto il partner affidabile di Putin. Mosca è infatti parte dell’Osce Minsk Group, il meccanismo di dialogo instituito già nel 1992 per trovare una soluzione negoziale alla regione contesa e di cui fanno parte anche Francia e Stati Uniti.

Oggi, mentre proseguono i combattimenti (che coinvolgono ancora aree civili) la situazione è approdata tra i temi della ministeriale Difesa della Nato, con il segretario Jens Stoltenberg che ha sottolineato come “La Nato non è parte nel conflitto” e “la Turchia è un valido alleato”. “L’ho detto chiaramente” al presidente dell’Armenia, Armen Sarkissian, ha aggiunto, mentre Sarkissan dopo l’incontro con Stoltenberg aveva dichiarato che sarà possibile raggiungere un cessate il fuoco e andare a un tavolo negoziale solo quando la Turchia “smetterà di interferire nel conflitto”.

Sempre oggi, i ministri degli Esteri azeri e armeni hanno incontrato il segretario di Stato statunitense, Mike Pompeo, ma l’impressione è che Washington sia troppo concentrata sul rush finale delle elezioni Usa2020 e l’amministrazione voglia cercare di capitalizzare consensi il più possibile anche dalle vicende di politica estera. E il Nagorno-Karabakh è una crisi annosa e complicata, dove per gli Usa è meglio esercitare limitatissimo coinvolgimento in questa sensibile fase. Il rischio attuale però sta nell’eccessiva autonomia che sia la Russia che la Turchia (grazie anche alle nuove avanzate azere) rischiano di ottenere dal conflitto.

Soprattuto, il rischio è che se l’Azerbaigian riuscirà a sfondare le difese armene (cosa prevista nel giro di poche settimane dai turchi) possa passare da Baku ad Ankara l’idea che la risoluzione di beghe geopolitiche è ancora possibile attraverso l’uso della forza e le trattative vengono nella fase successiva. Un problema di destabilizzazione generale che Washington non può accettare.

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