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La pandemia ci ha lasciato molte lezioni. Una su tutte: la globalizzazione, così come l’abbiamo conosciuta, è finita. E con essa è tramontata anche l’illusione che si possa esternalizzare tutto – dai principi attivi ai reagenti biotech – e poi far finta di non pagare dazio quando la catena si spezza. Oggi, in un mondo sempre più instabile, le catene del valore sono tornate a essere un’arma geopolitica. E l’Europa, purtroppo, è arrivata a questo appuntamento impreparata.

Il dato è chiaro: secondo la Critical medicines alliance, tra il 60 e l’80% dei principi attivi utilizzati nei farmaci europei proviene da Cina e India. Una dipendenza strutturale che non solo compromette la capacità di risposta a shock sanitari improvvisi – come abbiamo visto con le mascherine e i vaccini – ma mette anche a rischio la nostra sovranità tecnologica in settori ad altissimo impatto strategico. In altre parole, non è più solo una questione industriale, ma di sicurezza nazionale.

Nel frattempo, Pechino non è rimasta a guardare. Negli ultimi anni la Cina ha verticalizzato le sue filiere biotech, ha investito a tappeto in ricerca e sviluppo e ha reso sempre più difficile l’accesso esterno ai propri avanzamenti. E mentre noi continuiamo a dibattere se sia o meno il caso di incentivare la produzione di antibiotici in Europa, Pechino si assicura il controllo sui materiali critici e sulle piattaforme genetiche di nuova generazione. Il risultato? Un’asimmetria sempre più pericolosa tra la nostra apertura commerciale e la loro capacità di chiuderci i rubinetti quando più gli conviene.

Negli Stati Uniti il messaggio è stato recepito. Dietro la retorica dei dazi e delle “relazioni privilegiate” si nasconde una strategia molto più ampia: riportare a casa le produzioni critiche, rafforzare la base manifatturiera nazionale e blindare il biotech come pilastro della sicurezza sanitaria e militare del Paese. Perché è questo il punto: le biotecnologie non sono solo strumenti di cura, ma anche tecnologie dual use, con potenziali applicazioni militari in scenari di guerra ibrida e Cbrn (chimico-biologico-radiologico-nucleare). Chi controlla il biotech controlla anche la capacità di difendersi da minacce non convenzionali.

L’Italia, a differenza di altri partner europei, ha ancora una carta da giocare. Abbiamo eccellenze industriali e scientifiche, una rete di Pmi dinamica e centri di ricerca all’avanguardia. Ma mancano due cose: una visione strategica e una volontà politica capace di trasformare queste risorse in leva geopolitica. Serve un patto tra istituzioni, imprese e accademia per attrarre investimenti, trattenere i talenti e costruire un ecosistema sovrano nel biotech. Non possiamo più permetterci di dare per scontato ciò che è essenziale per la nostra salute e la nostra sicurezza.

Perché in un mondo in cui la frammentazione è la nuova normalità, presidiare le catene del valore significa una sola cosa: sopravvivere.

(Pubblicato su Healthcare Policy 16)

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