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Il brutale massacro di 26 civili indù maschi a Pahalgam, in Kashmir, non è stato un atto di terrorismo casuale. Si è trattato di un attacco chirurgico rivendicato dal The Resistance Front (Trc), diramazione del gruppo jihadista Lashkar-e-Taiba (LeT), lo stesso responsabile degli attentati di Mumbai del 26/11.

A Pahalgam, i terroristi hanno selezionato con cura le vittime, tutte di religione indù e provenienti da varie regioni dell’India. L’unico musulmano rimasto ucciso è stato un operatore locale di pony, morto mentre cercava di difendere i turisti. Il messaggio è stato inequivocabile: una strage settaria, pianificata per incendiare le tensioni religiose.

Il tempismo è stato eloquente. Pochi giorni prima, il Capo di Stato Maggiore pakistano, il generale Asim Munir, aveva tenuto un discorso incendiario a Islamabad, definendo il Pakistan come l’unico Stato nato dal Corano negli ultimi 1300 anni, dai tempi del primo Emirato islamico, e descrivendo il Kashmir come la “vena giugulare” del Pakistan. Il suo tono, impregnato di nazionalismo religioso, trasudava disprezzo per l’identità secolare dell’India.

Il governo indiano sostiene da tempo che il Pakistan utilizzi il terrorismo per ostacolare il ritorno della stabilità in Kashmir. Sebbene alcuni analisti occidentali guardino con scetticismo alla narrazione indiana di “normalizzazione”, pochi negano che il Kashmir stia conoscendo una crescente integrazione economica con il resto del Paese, attraverso investimenti, turismo e attività commerciali. La revoca dell’articolo 370, un tempo altamente controversa, ha portato benefici economici visibili alla regione, accolti positivamente dalla maggioranza dei kashmiri.

Oltre la Linea di Controllo, la situazione è opposta. Il Pakistan affronta un collasso economico, crescenti disordini nella parte di Kashmir sotto suo controllo e il fallimento di progetti chiave come il Corridoio Economico Cina-Pakistan (Cpec). Islamabad appare sempre più isolata. I talebani, una creatura dei servizi segreti pakistani (Isi), si sono rivoltati contro i loro creatori, e la linea Durand è di nuovo teatro di tensioni.

Nel frattempo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti — un tempo colonne finanziarie del Pakistan — si stanno orientando verso l’India, incrementando gli investimenti nel Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (Imec) e aggravando l’isolamento di Islamabad. In questo contesto, l’attentato di Pahalgam appare calcolato: ha colpito solo uomini indù, risparmiando donne e bambini, con un modus operandi che ricorda quello di Hamas negli attacchi del 7 ottobre contro Israele. L’obiettivo era personalizzare l’orrore, provocare rabbia senza però scatenare la condanna globale che avrebbe generato l’uccisione di donne e minori. Uccisioni mirate, inoltre, evitano vittime musulmane o kashmire, nella speranza di non alienarsi il sostegno di queste comunità.

Non si è trattato solo di un attacco alla pace in Kashmir. È stata una provocazione diretta: un tentativo di trascinare l’India in un confronto militare con il Pakistan e di destabilizzarla internamente, alimentando tensioni hindu-musulmane proprio mentre i musulmani indiani protestavano contro l’approvazione della legge sul Waqf.

Ma la strategia degli attentatori si è rivelata fallimentare. Invece di divisione, l’attacco ha generato un’inedita unità in tutta l’India. Leader dell’opposizione, compreso Asaduddin Owaisi — critico serrato del governo Modi — hanno condannato il massacro con fermezza. Owaisi ha persino invitato i musulmani a lutti pubblici e chiesto che il Pakistan sia ritenuto responsabile.

In tutto lo spettro politico e religioso, i musulmani indiani hanno respinto la narrativa dei terroristi. Contrariamente a quanto speravano gli attentatori, non si è registrata alcuna reazione comunitaria su larga scala, ma una determinata volontà collettiva di restare uniti.

Resta però una domanda cruciale: il generale Munir ha agito solo per rispondere alle pressioni interne dovute alla crisi del Pakistan, o è stato spinto verso l’escalation da attori esterni con interessi strategici globali?

La risposta è determinante. Negli ultimi dieci anni, l’India è diventata un polo di attrazione per gli investimenti internazionali, proprio mentre la Cina perdeva terreno sulla scena globale. Aziende come Apple stanno spostando le proprie catene di fornitura verso l’India. Con l’instabilità in Bangladesh, anche il suo settore manifatturiero si sta orientando verso India e Vietnam. Le nuove guerre commerciali lanciate dal presidente Trump stanno ridefinendo la geopolitica economica, e l’India si impone come alternativa strategica alla Cina per la produzione e come mercato chiave per Stati Uniti ed Europa. La Casa Bianca di Trump ha apertamente dichiarato di voler privilegiare accordi commerciali con alleati asiatici in grado di contenere Pechino, come India, Vietnam e Corea del Sud.

Un conflitto armato tra India e Pakistan — due potenze nucleari — sconvolgerebbe le catene di approvvigionamento globali, spaventerebbe gli investitori e rallenterebbe l’ascesa dell’India. Produrrebbe quel tipo di caos che avvantaggerebbe attori come Pechino, Teheran o Ankara, ostili all’emergere dell’India. Una terza guerra in Asia, dopo quelle in Europa e in Medio Oriente, metterebbe a dura prova la capacità delle potenze globali di contenere la Cina, offrendo a quest’ultima un vantaggio strategico e momentaneamente eliminando l’India come valida alternativa.

Il Pakistan, con poco da perdere, potrebbe agire in modo sempre più avventato. Ma per l’India, la posta in gioco è molto più alta. Il governo deve calibrare con precisione la propria risposta: punire i responsabili senza cadere nella trappola strategica che è stata tesa.

La resilienza dell’India è messa alla prova — non solo dal terrorismo, ma da un gioco molto più ampio che si sta dispiegando sullo scacchiere globale.

(Foto: X, @AmitShah)

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