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Le pulizie di casa non bastano. Per la Lega di Matteo Salvini è l’ora di un cambio di passo, anche al di fuori dei confini nazionali. Era un brusio, ora a via Bellerio è diventato assordante. Giancarlo Giorgetti, vecchia guardia del Carroccio, vicesegretario federale e già sottosegretario a Palazzo Chigi, vuole rimettere la barra dritta. Quell’astensione degli europarlamentari leghisti sulle sanzioni al dittatore bielorusso Lukashenko, e il voto contrario alla risoluzione sul caso Navalny, bruciano ancora di più il giorno dopo la battuta d’arresto alle regionali.

Sul Corriere della Sera Francesco Verderami racconta di un confronto incandescente fra il “Capitano” e il suo più saggio consigliere. Finché si ripetono episodi del genere, è il ragionamento di Giorgetti, la Lega non si toglierà mai lo stigma di partito sovranista, anti-establishment, antiatlantico che buona parte della stampa e delle cancellerie estere, non senza qualche ragione, le hanno affibbiato. È anche da qui, da un riposizionamento al riparo da ambiguità, che la Lega può rifarsi il vestito e bussare a Palazzo Chigi. Senza quel restyling di forma e di sostanza, è tempo sprecato.

La nuova segreteria, annunciata da Salvini a Porta a Porta, potrà anche rimettere sui binari della “vecchia e buona politica” le truppe leghiste. Ma il problema non è organizzativo, è di linea politica. E a segnalarlo non c’è solo Giorgetti. C’è un’intera ala del partito che chiede di abbandonare il vicolo cieco del sovranismo nudo e crudo, dell’antieuropeismo, dell’avversione a Usa e Nato.

Basti scorrere un’intervista rilasciata dal capo del Copasir Raffaele Volpi alla Fondazione De Gasperi, istituzione legata al Ppe di Ursula von der Leyen. “Non si può essere democristiani perché non esiste più la Dc, ma si può essere popolari in qualsiasi partito”, dice Volpi. E sul Ppe: “Forse bisogna nuovamente considerare quali sono gli spazi comuni”. Non è poco.

Giorgetti è stato il primo a dirlo. L’anno scorso, quando Salvini lo ha nominato responsabile Esteri della Lega, mentre ancora furoreggiava sui giornali lo scandalo russo dell’Hotel Metropol, il vice mise le cose in chiaro: nessuno parli di politica estera se non interpellato.

Ma la tregua è durata un attimo. Tra i primi a violarla, il drappello di europarlamentari guidato da Marco Zanni, con una straordinaria propensione al fuori-gioco quando si parla di Russia, Cina e dintorni. L’ultimo episodio, quello su Lukashenko, ha fatto traboccare il vaso, e pare che persino Salvini se ne sia accorto.

Meglio tardi che mai. Ora, è l’invito della fronda “moderata” nel Carroccio, è il momento di un esame di coscienza. Se la Lega vuole davvero accreditarsi come partito di governo, non può restare col piede in due scarpe. Questo giovedì, con buona pace di chi spera di stare un po’ a Mosca, un po’ a Washington DC, il Dipartimento di Stato americano ha messo sotto sanzioni Yevgeniy Prigozhin, l’oligarca noto come lo “chef” di Vladimir Putin più volte accostato alle interlocuzioni moscovite della Lega.

E martedì il segretario di Stato Mike Pompeo sarà a Roma. Il tempismo di Giorgetti, al solito, non è casuale.

Giorgetti, Salvini e la Lega che (non) russa

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