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Manca poco più di un mese alle elezioni presidenziali statunitensi e le questioni internazionali diventano un elemento centrale nell’azione politica di Washington. Se si esclude la pseudo-battaglia tra potere secolare e temporale che l’amministrazione Trump sembra aver ingaggiato con il Vaticano (la Chiesa come entità geopolitica, i fedeli come collettività e la Cina come nemico sono l’oggetto del contendere), l’Iran è in cima ai dossier in agenda. Dalle condanne contro i satelliti regionali, come Hezbollah, alle manovre diplomatiche in sede Onu, Teheran è l’obiettivo. E così come contro la Santa Sede è una figura di primissimo rilievo del governo americano – e del potere trumpiano – a guidare l’offensiva, anche narrativa e mediatica: il segretario di Stato, Mike Pompeo.

L’Iran (la pressione sull’Iran) è indubbiamente un tema elettorale per Donald Trump attorno a cui ruota il rapporto con lo Stato ebraico e con i regni del Golfo — portatori di fondi, voti, istanze a Washington. La dimensione s’è materializzata con gli accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein, che gli Stati Uniti hanno mediato anche attraverso il catalizzatore anti-iraniano e su cui la Casa Bianca ha piantato le fondamenta dell’eredità presidenziale sugli affari internazionali. E allora mentre la “USS Nimitz” doppia lo Stretto di Hormuz — nodo talassocratico a controllo iraniano e teatro di tensioni a elevato potenziale esplosivo — e un drone iraniano la sorvola rendono pubbliche le immagini riprese, Pompeo incalza Teheran. Sanzioni e allineamenti tattici richiesti agli alleati sono il tema.

Gli Stati Uniti, dice il segretario, annunciano di “accogliere con favore il ritorno di praticamente tutte le sanzioni Onu precedentemente revocate contro la Repubblica islamica dell’Iran, il principale sponsor mondiale del terrorismo e dell’antisemitismo”. Di cosa stiamo parlando? “Ci si riferisce soprattutto all’embargo sull’acquisto di armi all’Iran, che come previsto dal Jcpoa scadrà il 18 ottobre. Sempre se non succede qualcosa nel frattempo”, spiega a Formiche.net Annalisa Perteghella, Iran-desk dell’Ispi. Jcpoa è l’acronimo tecnico dell’accordo per il congelamento del programma nucleare iraniano. “È lì che ruota la battaglia diplomatica degli Stati Uniti in questo momento: impedire che l’embargo sia rimosso”, aggiunge l’analista.

Le recenti dichiarazioni di Pompeo hanno aperto a una reazione ampia e multilaterale. Russia e Cina, Paesi che hanno relazioni strette (anche in chiave anti-Usa, certamente) con l’Iran, hanno criticato la linea americana. Ma anche Regno Unito, Francia e Germania si sono messi nella stessa traiettoria. Queste cinque nazioni sono parte di quell’accordo multipolare siglato cinque anni fa, e come ha ricordato l’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, gli Stati Uniti “non possono essere considerati uno Stato del Jcpoa e quindi non possono riavviare, da soli, il processo di ripristino delle sanzioni”.

Gli Usa stanno per essere “sconfitti dalla comunità internazionale sulla volontà di imporre sanzioni” e “sono sempre più isolati”, ha detto il presidente iraniano Hassan Rouhani. Soli contro tutti? “Quando gli Stati Uniti sono usciti in forma unilaterale dall’accordo – spiega Perteghella – hanno cercato di imporre l’agenda, con l’Ue che ha provato a contenerli, ma ora che è chiaramente impossibile farlo. Per questo Bruxelles ha fatto uscire anche dichiarazioni molto dure. Come per esempio ad agosto, quando Washington ha avviato le prime mosse sull’embargo cercando di introdurre una prima risoluzione in Consiglio di Sicurezza Onu”.

Che cosa sta succedendo al Palazzo di Vetro? “Ci troviamo davanti a una battaglia legale, perché gli Stati Uniti dicono che l’Iran non sta rispettando il Jcpoa e dunque inviano il cosiddetto snapback, ossia far rientrare in vigore tutte le sanzioni Onu (tra cui l’embargo sulle armi, ndr). Dall’altra parte i tre europei con Russia e Cina (altri firmatari del Jcpoa, ndr) dicono che siccome gli Usa non sono più parte dell’accordo non possono chiedere la riattivazione di certe clausole. Sembra che entrambe le posizioni possono essere legittime secondo analisi legali, perché anche se fuori dal Jcpoa, gli Stati Uniti sono comunque un Paese parte del Consiglio di Sicurezza”, spiega l’analista dell’Ispi.

Cosa potrebbe cambiare con un’eventuale vittoria del contender democratico Joe Biden o con un secondo mandato di Trump? Per Perteghella è in corso un”grande gioco della parti” che si protrarrà da qui al 3 novembre: “Un dato di fatto è che si tenda a salvare il salvabile e vedere cosa succede tra due mesi. Essenzialmente la ragione per cui l’Ue sta prendendo posizioni dure nei confronti degli Stati Uniti è perché vuol mantenere vivo l’accordo. Poi sì, se dovesse vincere Biden potrebbe essere quell’intesa la base su cui poggiare futuri e nuovi negoziati con Teheran. Però se dovesse essere riconfermato Trump, i nodi verranno al pettine, perché a quel punto davanti alle pressioni anche da parte iraniana non ci sarà più volontà di restare nell’intesa”.

Iran, cosa si muove tra Usa, Ue e Onu. L'analisi di Perteghella (Ispi)

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