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Renzo Lusetti parla con l’antico garbo primo repubblicano. Da democristiano in un certo senso riesce sempre ad analizzare gli equilibri politici da una prospettiva di medietà. E, come si addice ad un politico di lungo corso, attinge anche livello dialettico ad un gergo per lo più desueto che profuma di passato. Ma, forse proprio per questo, estremamente affascinante. Tant’è che la prima parola che utilizza per descrivere i rapporti di forza all’interno dell’esecutivo in vista di un paventato rimpasto è “distensione”.

“Se di rimpasto si parla – dice Lusetti – al massimo si parla di un rimpasto ‘agostano’. O comunque di un’operazione che per forza di cose riguarderebbe pochi dicasteri. Anche la riflessione che Zingaretti ha fatto per ‘blindare’ al Viminale Lamorgese mi sembra un buon segnale di distensione. Non ha certo il significato dello #staisereno di Renzi a Letta”. Una cosa è chiara però: “Se questa operazione dovesse essere avviata – prosegue l’ex ulivista – dovrebbe partire dal capo del governo. È a Conte che eventualmente spetterebbero le manovre per i rimpasti”.

L’ipotesi però, non convince appieno Lusetti che con sagacia guascona ironizza: “Se Salvini ha dichiarato la crisi di governo a ferragosto, Conte può anche permettersi un rimpastino”. Il tema comunque rimane saldamente ancorato ai rapporti di forza tra i due maggiorenti dell’esecutivo: Conte e Zingaretti. Zingaretti e Conte. “Ormai è chiaro che hanno bisogno l’uno dell’altro – taglia corto il democristiano – nessuno dei due potrà mai cercare, specie in una fase come questa, un punto di rottura. Il centrodestra è forte e il leader del Pd non avrebbe nessun interesse ad ambire a un ritorno alle urne”. Non solo. A breve, in molte realtà, gli elettori alle urne dovranno andarci comunque per eleggere i presidenti di regione. E Lusetti sa bene che “in alcuni territori i risultati sono scontati, mentre in altri tutt’altro e si dovrà lottare non poco”. Sui territori poi “anche per via della formazione di diverse liste civiche, il Partito democratico rischia di vedersi eroso potenzialmente un’altra parte di elettorato”.

C’è un grosso tema però a livello di proiezione che potrebbe avere, sui territori in cui si vota, un effetto deflagrante: il mal digerito accordo fra Pd e Movimento 5 Stelle. “Mentre il feeling tra Zingaretti e Conte piace alla base elettorale del Pd – analizza Lusetti – non si può dire altrettanto dei rapporti fra i due partiti. Specie nelle province. Ho riscontrato in questo senso che, a livello periferico, ci sono diversi punti di rottura tra i ‘dem’ e i grillini”. L’esempio plastico potrebbe essere Roma. “Nella partita per il Comune – dice ancora il politico – reputo quantomeno improbabile un’alleanza fra le due forze”.

Per ora dunque, pare che la fusione tra le due anime dei movimenti (Pd e 5 Stelle) – il cui regista era parso essere Dario Franceschini – sia essenzialmente rimasto “un accordo al vertice”. I dem poi, scontano un altro grande problema. La leadership. “All’interno dello schieramento democratico – sottolinea – vedo in grande ascesa Stefano Bonaccini. Chiaramente ad una persona così, connotata come uomo di partito, idealmente andrebbe affiancata una figura come quella di Lorenzo Guerini come uomo di governo. Oppure, rimanendo sempre nel campo delle ipotesi, ci vorrebbe una figura di partito come Orlando e un uomo di governo come Franceschini”.

La sfida quindi è quella di coagulare “un’esperienza più tradizionalmente di sinistra con una di tradizione centrista”. Sulla base di questi presupposti, quanto ancora durerà questo governo? “Se si scavalla la primavera Conte rimane in piedi ancora per un bel po’ – sentenzia Lusetti –. Chiaramente, nel dramma del Covid l’esecutivo ha avuto la sua legittimazione anche di carattere popolare e sicuramente la pandemia ha cementificato dei rapporti all’intero della maggioranza. Non sono certo aspetti di poco conto”.

Conte-Zingaretti, il feeeling c'è. Invece tra M5S e Pd... La versione di Lusetti

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