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La rete di telecomunicazioni era pubblica, realizzata in concessione da una società per azioni controllata dalla mano pubblica e da una azienda di Stato, ed era all’avanguardia. È stata privatizzata senza le precauzioni che allora ritenevamo essenziali e senza il successivo rispetto delle pur insufficienti regole, sicché la società è stata depredata e la rete indebolita. Una pessima storia. Ma veniamo all’oggi e al perché la strada che si sta imboccando non sarà gloriosa.

Da una parte c’è Tim, nella cui pancia si trova la rete, che pur malmessa e tecnologicamente arretrata è il patrimonio che regge quella società in equilibrio, per quanto precario. La tesi di Tim era: continueremo a investire noi, altri che vogliano farlo nella nostra rete sono i benvenuti, ma resta, appunto, nostra. Dall’altra c’è lo Stato, che aveva avviato la concorrenza con Tim, creando una società fra Enel e Cassa depositi e prestiti (la quale, al tempo stesso, è azionista di Tim, in conflitto d’interesse), salvo poi, da ultimo, sostenere che la rete deve essere unica e in mano pubblica. L’accordo sembra consistere nel fatto che la rete resta di Tim, che s’intesta più del 50% delle azioni di una società nella quale sarà collocata, ma pubblica sarà la restante parte del capitale. Nell’accordo è previsto che le due parti debbano sempre essere in accordo, nominando ciascuna l’amministratore e il presidente, con il consenso dell’altra. I soldi pubblici vengono investiti in una società privata. Così concepito è un accordo a due, che esclude gli altri. Semmai lo si allargasse si dovrebbe avere sempre l’unanimità, consegnandosi alla litigiosità e inoperatività.

Non basta. A far sì che la rete sia infrastruttura su cui si pratica la concorrenza fra diversi fornitori di servizi è necessario ci siano regole chiare, che sono quelle europee, mentre non sta scritto da nessuna parte che la proprietà pubblica risolva alcunché. E comunque rimane privata. Non basta ancora: sulla rete i maggiori profitti sono tratti dagli utilizzatori, che non investono nell’infrastruttura. Prendete, ad esempio, il vasto e crescente mondo del commercio on line: non investe nella rete, ma la usa. Cercare di remunerare gli investimenti e non renderli solo un servizio a terzi, quindi scoraggiandoli, è saggio, ma che la proprietà sia nella stessa mano del regolatore lo rende più complicato e sospetto, non più facile e trasparente.

Alla fine il nuovo non è altro che il vecchio, ma senza la preparazione e l’autonomia gestionale che contribuirono a portare le telecomunicazioni italiane nel campo dell’eccellenza e a dare vita a una grande multinazionale. Torna in auge lo statalismo, ma privo di strategia. Il nuovo è il peggio del vecchio, senza che nessuno sembri interessato a chiarire cosa succede se i soldi spesi da Cassa depositi e prestiti genereranno delle perdite, oltre che dei posti da spartirsi.

L’alternativa c’era eccome, consistente nel ripristinare la credibilità del regolatore e controllore, obbligando gli operatori che agiscono in regime di autorizzazione a investire o a passare la mano e accelerando la realizzazione della rete 5G, che non è quella di cui ora si tratta. Si è preferito confondere e sovrapporre le mani. Speriamo di non dovercele mettere nei capelli.

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