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Bisognerebbe capire, partendo da analisi e non da sensazioni, che tipo di incidenza il Covid-19 ha avuto sui processi politici nel mondo democratico. Per esempio: in piena pandemia gli Stati Uniti fanno registrate il numero più alto di presenza al voto, un 67% storico, per un elettorato che nei momenti di splendore partecipativo è arrivato al 55-57%. E non è andato diversamente in Italia nelle elezioni referendarie: un imprevedibile 51,12% in un turno elettorale attraversato dal coronavirus, capace persino di trascinare il voto delle regionali. Ed era a tutti chiaro che per validare il referendum costituzionale non occorreva conquistare nessun quorum.

Dunque, paradossalmente, il dramma della pandemia non ha spinto al “diradamento della partecipazione”, ma, al contrario, ad una partecipazione militante e sprezzante di ogni pericolo per l’incolumità personale. Ma la pandemia, combinata con la sovraesposizione mediatica di chi era al governo, ha agito politicamente anche in un altro senso, in genere confermando o consolidando la fiducia per chi era al governo. Salvo il caso di Trump, che col suo negazionismo ondivago e la sua protervia rodomontica, sfigurata dall’impennata dei decessi e dalla disoccupazione in galoppo, nel resto del mondo l’ondata pandemica non si è abbattuta contro chi era in sella al governo. Non in Germania, certamente, ma neanche in Francia o in Inghilterra. Anzi. Nel piccolo mondo italico, poi, addirittura i presidenti delle Regioni al voto ne hanno tratto giovamento e così è stato anche con il governo Conte. Almeno per la prima ondata. Si potrà dire lo stesso anche per la seconda?

Il virus colpisce con virulenza imprevista (almeno dalla politica e dagli scienziati che la politica s’è scelti come consulenti) e le risposte sono apparse alla pubblica opinione incerte. Ha pesato il ping pong circonfuso di fumo sulle decisioni da assumere intorno al lockdown morbido, con un palleggio non proprio edificante di responsabilità tra governo centrale e regioni. L’esito è stata la palla fuori campo delle regioni colorate dai toni cangianti. Oltre al solito Dpcm. L’onda trascina a riva i detriti del disagio della gente, del mondo dei professionisti, dei commercianti che non possono più tirar su la saracinesca, dell’imprenditoria piccola e media colpita a morte. Solo l’opposizione ripete stancamente e in modo praticamente inoffensivo, il suo verso. Mentre sta pesando lo scalpitio dei sodali di governo- Pd e Renzi in particolare – che sembrano vivere con disagio il destino di deuteragonisti in una piece in cui non riescono a toccare palla. In attesa di portare a casa il risultato più grosso, quello del Presidente della Repubblica nel 2022, rischiano di rimanere come i pastori del presepe di fronte al bambinello.

E allora squilli di tromba s’odono da parte di autorevoli opinion maker del Pd, come Bettini, che dice qualcosa di sinistra, ma che può non piacere a Conte. C’è un punto, però, che sembra non essere sufficientemente chiaro ed è quello dell’ineluttabilità oggi di Conte premier: il suo essere senza partito, la sua aura di “tecnicità“, la sua flessibilità, nel periodo storico che celebra non la forza, non la capacità di aggregare consenso, ma sopra ad ogni altra qualità soprattutto la resilienza, Conte appare come le colonne d’ Ercole della legislatura. Après moi le déluge, dunque, almeno fino a quando durerà l’anormalità del coronavirus. Ecco: nella casistica dell’impatto della pandemia con la politica, il caso italiano è proprio da studio.

conte

Phisikk du role - L’equilibrio del Conte II: après moi le déluge!

Il suo essere senza partito, la sua aura di “tecnicità“, la sua flessibilità, nel periodo storico che celebra non la forza, non la capacità di aggregare consenso, ma sopra ad ogni altra qualità soprattutto la resilienza, fa apparire Conte come le colonne d’ Ercole della legislatura. La rubrica di Pino Pisicchio

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