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La data di martedì 3 novembre 2020 si appresta a segnare uno spartiacque nella storia degli Stati Uniti così come nelle dinamiche che governano gli equilibri internazionali. Gli americani torneranno alle urne, con tutte le difficoltà legate alla pandemia, per decidere se confermare Donald Trump alla guida della Casa Bianca o scegliere Joe Biden, chiudendo una parentesi sui generis della storia politica a stelle e strisce, riconsegnando il Paese a una leadership democratica. Nell’una o nell’altra maniera, abbiamo detto, si segnerebbe il corso della storia. Con un Trump bis e senza l’ossessione di un altro mandato, il 45esimo presidente americano potrebbe dare sfogo (per quel che ancora non ha fatto) a tutte le sue ambizioni specie in materia di politica estera e relazioni economiche. Oppure optare per scelte meno “elettorali” e più pragmatiche, anche se tale ipotesi appare meno quotata. In caso di vittoria Dem, senza dubbio, le cose cambierebbero a partire dai rapporti con le realtà d’oltreoceano e tra queste potrebbe esserci proprio la Libia.

Ritenuto un dossier marginale, o comunque non centrale, almeno sino a quando la Russia non si è affacciata sulla sponda sud del Mediterraneo, la Libia ha avuto uno spazio ridotto nell’agenda di Trump. Il quale ha sposato una linea dapprima dicotomica rispetto a quella filo-tripolitina e filo-onusiana del dipartimento di Stato, perché ammaliato dalla figura di Khalifa Haftar quale bastione contro il terrorismo così come è stato a lungo sponsorizzato dall’alleato egiziano Abdel Fattah Al Sisi. E soprattutto perché amico intimo di quegli Emirati Arabi, che sono sempre stati un tassello essenziale nella triangolazione mediorientale tra Usa, Israele e blocco sunnita, in chiave anti-iraniana. La comparsa in Cirenaica della lunga mano di Mosca, attraverso i mercenari della compagna privata Wagner, ha però portato a un ripensamento delle posizioni in campo che, in caso di vittoria di Trump è destinato a proseguire per altri quattro anni.

Diverso è il discorso se ad uscire vincitore dalle urne il 3 novembre fosse Biden, e questo per tre motivi sostanziali. Il primo è che i democratici sono sostenitori strenui della causa curda (mentre per Trump i curdi erano soprattutto un’arma con cui contrastare lo Stato islamico), e questo crea qualche irritazione alla Turchia che nel movimento curdo non vede altro che un’organizzazione terroristica. Eventuali sostegni al Rojava in Siria o, ancor peggio, messaggi di apertura alla causa di uno Stato autonomo, potrebbero portare Ankara a sfilarsi da quel ruolo di sponda con cui si è proposta in Libia per arginare la Russia tanto temuta dagli Usa. E ciò nonostante si tratti di un alleato della Nato. Si tratterebbe di un’arma efficace per il sultano Recep Tayyp Erdogan vista l’ambizione del Cremlino di avere una base navale sulla sponda sud del Mediterraneo, dopo averla ottenuta sul lato Est, in Siria. Il secondo aspetto riguarda l’eredità “obamania” di sintonia col Qatar e con alcuni elementi della Fratellanza musulmana. Quel fattore che fu in parte alla base della scelta di dare ossigeno al fuoco delle Primavere arabe, a partire dall’Egitto con l’ascesa (e la veloce discesa) di Mohammed Morsi e poi nella stessa Libia. Questa eredità non piace ovviamente ad al Sisi, che del predecessore e dei suoi seguaci si è sbarazzato senza indugio una volta preso il potere al Cairo. Ma non piace nemmeno agli Emirati, dato il dissidio tra le grandi monarchie del Golfo e la Fratellanza, quindi ai due alleati fondamentali degli Usa in Medio Oriente e Africa del Nord – allo stesso i due interlocutori di primo piano sullo scacchiere libico nella veste di sponsor di Haftar. Un rischio che andrebbe a destabilizzare nuovamente il Paese proprio quando si è giunti a un cessate il fuoco, seppur condizionato da tanti fattori, dopo 17 mesi di guerra civile.

C’è infine la storia recente che crea qualche problema ai democratici, perché è vero che Obama ha appoggiato l’attacco Nato che ha portato alla caduta di Muammar Gheddafi, ma è anche vero che in questo modo, oltre ad aver fatto gli interessi della Francia di Nicolas Sarkozy, si è reso complice di un vuoto di potere. Lo stesso che ha portato all’avento di islamisti, estremisti e terroristi sino alla proclamazione della terza capitale del Califfato da parte dell’Isis a Sirte. E ha consegnato il Paese all’ordine anarchico delle milizie, a due rivoluzioni fallite e una serie di guerre, a più o meno bassa intensità, che lo hanno spaccato e messo in ginocchio. Con conseguenze di carattere umanitario pesanti e, in seconda istanza, dando spazi enormi al criminoso problema del traffico di esseri umani che riguarda da vicino l’Italia.

Non che Gheddafi meritasse di sopravvivere politicamente, ben inteso, ma così come si è proceduto si è scoperchiato un vaso di Pandora dal quale è uscito di tutto, compreso l’assalto terroristico al consolato americano di Bengasi da parte di Ansar al Sharia, episodio costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens e ad altri tre cittadini americani. Vicenda sulla quale Hillary Clinton brillò per la sua incapacità gestionale, ma anche per la sua mancanza di empatia nel giustificare e ammettere il fallimento legato a un atto di tale gravità. Al punto tale che a farne le spese fu più di altri Susan Rice, allora suo ambasciatore all’Onu, che pur di non mettere in evidenza responsabilità altrui preferì “non ricordare” durante le audizioni in Congresso. Scelta che la costrinse a ritirare la sua candidatura come successore di Hillary alla guida di Foggy Bottom spianando la strada a John Kerry. Un passato, quello delle vicende libiche, che è venuto nuovamente a bussare alla porta di Rice, fino all’ultimo tra le finaliste nella scelta del vice da parte di Biden, ma scartata a vantaggio di Kamala Harris – dicono gli osservatori – anche per il rischio del riemergere di quelle polemiche. Ancora sufficientemente vive da rischiare di far partire col piede sbagliato l’attuazione della eventuale agenda di politica estera di Biden. Ma la storia insegna che la Libia e il suo passato bussano più di una volta.

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