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Non aspettatevi che Carlo Verdone tenga una lezione leggendo un testo preparato, ancorché all’interno di un contesto accademico, come la Luiss di Roma. Ieri, chiamato a riflettere sul tema “Comicamente etici”, è andato a braccio. Ad ascoltarlo, Romana Liuzzo, presidente della Fondazione Guido Carli, ideatrice della lectio d’autore; il Prefetto di Roma, Lamberto Giannini; il sottosegretario di Stato al ministero della Cultura, Lucia Borgonzoni; la vice presidente del Senato, Licia Ronzulli; docenti e studenti della nota università di via Nomentana.

Carlo Verdone ha il dono di trasformare una conferenza in un nuovo genere: una sorta di “comunicazione spettacolo”, in cui lo spettacolo non risulti eccessivamente teatralizzato, ma sia finemente speculare, ossia parli di come funzioni lo spettacolo medesimo; e la comunicazione rimanga nei confini della sobrietà culturale e non sconfini nel finto accademismo delle allusioni connotative.

Chi ha avuto la fortuna, tra noi anziani, di conoscere Mario Verdone, storico del cinema e dello spettacolo, scrittore e poeta, e Rossana Schiavina, docente di lettere ed esperta di musica classica, lei romana lui senese (ma anche “romano” dall’età di ventiquattro anni, nel 1943, come impiegato del Csc di via Tuscolana), genitori di Carlo, Luca e Silvia, quando ascolta Carlo Verdone non può non tracciare dei collegamenti tra i genitori e quest’ultimo.

L’umorismo, il non prendersi sul serio, ma l’essere serio, l’amore per la musica, l’umorismo romano, da Belli a Trilussa, nascosto tra i dialoghi per la Tv e il cinema, scritti da Carlo, in quarant’anni di finzione teatrale prima e televisiva poi (No Stop) e successivamente filmica, debbono qualcosa a Rossana. L’amore inesauribile per ogni forma di arte, dalla pittura, al teatro, alla letteratura al cinema («mio padre, a 17 anni, mi regalò la tessera del cineclub romano “Filmstudio”: vai a conoscere il cinema dei grandi autori»), l’umorismo toscano nel sangue, reso vivo nella scrittura per il teatro goliardico senese (Il trionfo dell’odore, 1945-6), vengono da Mario.

La cultura di famiglia, diremmo, è il 20% del mondo della finzione cinematografica che Carlo Verdone avrebbe inventato negli anni Ottanta. Era il decennio di un nuovo umorismo studiato e creato anche da altri colleghi, quali “Francesco Nuti, Roberto Benigni, soprattutto, Massimo Troisi: cercavamo un nuovo umorismo per raccontare la crisi del maschio italiano dopo il decennio del femminismo degli anni Settanta».

Ma il rimanente 80% della creatività artistica nel dar vita ai suoi personaggi, dove l’ha presa Carlo Verdone? A chi l’ha carpita? Egli lo ha raccontato più volte, e lo ha ripetuto, ieri, agli studenti della Luiss: «Osservando la realtà intorno a me. Ancora oggi, amo fare colazione al bar, nel mio quartiere, e sempre capitano incontri con persone che mi chiedono un selfie, o che gli faccia “allunga e gambe, ritira ‘ste gambe” – da Bianco Rosso e Verdone, n..d.r. – per “n’amica mia che sta all’ospedale, mo’ te  la passo!”, allungandomi il telefono. Osservo ogni giorno il mondo intorno a me».

E qui parte la carrellata dedicata al genere comico e all’umorismo del cinema italiano. «Già negli anni Cinquanta, per esempio, con Lo sceicco bianco, abbiamo l’umorismo fine e sognante di Fellini. (…). Poi, negli anni Sessanta, grazie a grandi attori e registi, il nostro cinema entra nella commedia grazie a notevoli opere». Ma è negli anni Ottanta che si presenta il problema di come raccontare un personaggio maschile, che non può replicare quello dei decenni precedenti. La società, sottolinea Carlo Verdone, «(…) è cambiata dopo la stagione sociale e politica del femminismo. Non c’era più il maschio predatore e rimorchiatore di donne, che metteva le corna o le riceveva (…) Di fronte avevamo una donna che non conoscevamo, più intelligente, fattiva dinamica (…). Poi, naturalmente, l’umorismo si è evoluto e, oltre al personaggio centrale, mattatore, diversi registi, hanno dato spazio anche ad altri attori. Nel mio caso, con Compagni di scuola (1988), ho voluto fare un passo indietro nella presenza del personaggio principale, e dare spazio ad altri personaggi che rappresentano i diversi tipi della società del periodo, in cui gli spettatori si riconoscevano. Oggi le sceneggiature, per essere apprezzate da un pubblico internazionale, ed è corretto pensare a superare i confini nazionali, si muovono su questa linea: debbono dare spazio a più personaggi centrali. Pensate al bel successo di Perfetti sconosciuti (2016), di Paolo Genovese, che è stato visto in tutto in mondo».

Ha poi aggiunto che l’umorismo e il comico debbono molto anche ad attori-autori della nuova generazione, come Ficarra e Picone, [probabilmente Verdone ha pensato al bel film di Roberto Andò La stranezza] davvero bravi, ma anche Checco Zalone, «che stimo molto, e non capisco perché alcuni continuino a scrivere che non c’è simpatia tra noi due!».

Verdone, prima di chiudere la sua affascinante carrellata, ha voluto sottolineare come negli ultimi anni siano aumentate le donne registe, le quali con «la loro sensibilità arricchiscono il cinema anche nella commedia. Recentemente ho visto alcuni episodi della serie L’arte della gioia, tratta dall’opera di Goliarda Sapienza, diretta da Valeria Golino, e debbo dire che Valeria è proprio brava come regista. I miei complimenti». Ha rammentato il grande successo «non mi ricordo quante migliaia di spettatori e quanti milioni di incasso, tipo 400», di C’è ancora domani, di Paola Cortellesi, in Cina, anche se qui il tema è «un argomento sociale, serio, quello del diritto delle donne al suffragio e alla ribellione al maschilismo».

L'umorismo è l'anima del cinema italiano. Parola di Carlo Verdone

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