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Dopo la magnifica dichiarazione di Lucio Caracciolo ieri al Festival di Limes a Genova (in sostanza: il Manifesto di Ventotene è un documento trotskysta) mi auguro che anche i più accesi fans del Manifesto (sempre che lo abbiano davvero letto dalla prima all’ultima riga) si rendano conto non solo della differenza valoriale e sostanziale tra quest’ultimo e il Trattato di Roma, ma anche del fatto che il Manifesto non può in alcun modo qualificarsi come documento costitutivo dell’Unione Europea.
Il Manifesto è in realtà tornato in auge successivamente alla Dichiarazione di Milano del 1985 (a cui segue l’Atto Unico Europeo del 1987).
L’esito del vertice europeo di Milano (a cui si oppose Margareth Thatcher) fu prodromo a porre le basi per definire i parametri di Maastricht per l’ingresso nell’Euro e a prevedere alcune modifiche di governance Europea in un’ottica di maggior accentramento di potere sui paesi forti (Francia e Germania) e rafforzamento di un impianto burocratico razionale volto all’autopreservazione (il concetto weberiano di “gabbia d’acciaio”, come mirabilmente ci ricorda Corrado Ocone), a danno di collegialità e sussidiarietà (valori chiave del Trattato di Roma). Ha così avuto luogo quella che potrebbe intendersi come una deviazione rispetto al Trattato.
Questa premessa ci aiuta a capire come oggi non serva qualificare i buoni o i cattivi nel milieu europeo. Serve invece comprendere quali sono gli interessi che determinano le scelte di ciascun Stato Membro. La comunità di destino che desideravano i Padri Fondatori è stata – dal 1986 in avanti – trasformata progressivamente in un’unione di interessi, dove per il loro “maggior peso specifico” alcuni interessi hanno prevalso su altri.
Occorre prendere atto di questo, non tanto per lamentarsi dell’Europa o per accendere il fuoco di facili scetticismi, bensì per meglio comprendere come l’azione comunitaria attuale (v. in ultimo l’approvazione del Recovery Fund) sia segnata dagli interessi prevalenti.
Facciamo un esempio del recente passato: come scritto da autorevoli esperti nei giorni scorsi, la valuta unica fu solo in apparenza un atto di generosità della Germania che rinunciò al marco. In realtà l’ingresso nell’Euro si rivelò un affare per la Germania, in quanto contribuì – unitamente a una forte attenzione ai conti pubblici – a favorire il suo surplus commerciale e a garantirsi leadership.
L’erosione, per la Germania, di un vantaggio competitivo che negli anni ha garantito dominio e influenza infra-comunitaria, potrebbe spiegare la disponibilità alla condivisione sia pure limitata e temporanea del debito e del rischio che il Recovery Fund comporta.
C’è un secondo elemento a supporto della scelta tedesca di sostenere l’Italia, che è la propria vocazione all’export ed il fortissimo interscambio commerciale con le piccole e medie imprese del Triveneto. In occasione della pandemia, la forza decisionale delle regioni italiane nella gestione del problema pandemico – come molto saggiamente evidenziato dal prof. Germano Dottori – ha messo in luce un cambio di paradigma economico e geopolitico, che ha fatto leva sui vantaggi competitivi di ciascuna regione e quindi sulla forza economica delle piccole e medie imprese ivi operanti.
Questo significa non soltanto necessità per ogni Stato Membro di tutelare i propri interessi in sede comunitaria, ma anche necessità per ogni regione di tutelare il proprio sistema economico ed agire in autonomia ove possibile.
Alla luce di quanto sopra, è facile intuire che la convergenza degli interessi guiderà le riforme comunitarie dei prossimi mesi e anni, e una vera evoluzione dell’Unione dipenderà dai vantaggi che i paesi più robusti (e quindi con maggior influenza) riterranno di avere da un’Europa stabile, coesa e dinamica.
Inutile ricordare che, per trarre benefici, all’Italia servirà molta autorevolezza in sede comunitaria.

Europa come unione di interessi: serve autorevolezza

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