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Dozzine di uomini armati sono piombati in sei villaggi nel nord della Nigeria e hanno razziato negozi, market e bestiame, mentre sparavano sui civili. Il bilancio dei fatti, avvenuti due giorni fa, è di 81 morti.

I responsabili del massacro sarebbero “gruppi armati” non identificati, probabilmente organizzazioni criminali che si collegano anche alla sigle del terrorismo estremista islamico.

Possibile sia stato Boko Haram o lo Stato islamico nel West Africa (Iswap), realtà jihadiste collegate; il vecchio gruppo, Boko Haram, è responsabile di circa 30mila morti da quando ha iniziato la sua lotta armata al governo nel 2009; successivamente, da una sua costola, si è formata l’emanazione del terrorismo baghdadista (nell’estate del 2014 il leader del gruppo, Abubakar Shekau, ha offerto la sua baya al Califfo, accettata mesi dopo).

Secondo alcune fonti sentite dai media locali, l’attacco potrebbe essere collegato a una rappresaglia per l’uccisione, da parte di guardie di sicurezza locali, di alcuni militanti jihadisti.

I villaggi colpiti martedì si trovano nel nord del Paese, a Felo, nella zona del governatorato di Gubio, nello stato confederato del Borno, al confine con il Niger. Da sempre zona di azione dei Boko Haram, l’area è caldissima perché epicentro geopolitico del terrorismo jihadista del Sahel. Zona in cui vari Paesi europei, tra cui l’Italia, hanno concentrato le proprie attenzioni in quanto bacino colturale di organizzazioni a carattere espansivo (l’insurrezione di Boko Haram si è spostata verso Niger, e nella regione del lago Ciad).

La zona è colpita anche dal coronavirus, e in un reportage del Washington Post i cittadini di Maiduguri, una delle città principali del nord nigeriano da anni falcidiata dalle violenze, spiegano di sentirsi marginalizzati. Non li aiutano nella lotta al terrorismo – contro cui il governo ha da tempo lanciato campagne militari tendenzialmente infruttuose – e non li aiutano con il Covid, raccontano.

Una situazione complessa che colpisce la collettività e che porta a movimenti di massa verso il confine nigerino, aggiungendo complessità. Secondo l’Unhcr le persone che stanno cercando rifugio in Niger stanno triplicando rispetto all’anno scorso. Non bastasse, il paese è colpito da un’epidemia di peste suina che ha prodotto l’abbattimento di dozzine di migliaia di capi.

Iswap si muove come un gruppo indipendente, convivendo – anche per origini comuni – con Boko Haram, che ha un interesse più localizzati a differenza della filiale jihadista, che ha mire più allargate. Circostanza questa che porta Iswap a lotte di potere regionali, in concorrenza con le altre fazioni dell’area; per esempio con la filiale saheliana Islamic State in the Greater Sahara (ISGS) con cui è impegnata in un confronto a cavallo dei territori tra Mali, Niger e Burkina Faso.

“Il massacro di Gubio, nello stato di Borno, rappresenta solo l’ultimo atto di una grave escalation di violenze armate nel nord-est della Nigeria e nella regione del Bacino del Lago Ciad. Se le violenze di Boko Haram nei confronti delle popolazioni civili sono note, i frequenti cambi di leadership ai vertici di ISWAP spiegano, in parte, le oscillazioni strategiche del gruppo, che ha a sua volta fatto dei civili un target delle proprie azioni a differenza di quanto avvenuto in passato.

In questo caso, due dinamiche in particolare si evidenziano: in primo luogo, i furti di bestiame (e, più in generale, le risorse di sostentamento delle comunità locali) rappresentano un driver di conflitto importante; in secondo luogo, l’attivismo delle milizie civiche di auto-difesa colma evidenti deficit di governance securitaria dello stato”, ha spiegato in un commento sul sito dell’Ispi, Camillo Casola, analista del Programma Africa del think tank.

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