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Sono due i concetti cerchiati in rosso nella partita dei dazi da Carlo Pelanda, uno dei più autorevoli analisti europei, oltre che docente e saggista, autore de L’Italia globale per Rubbettino: l’esigenza di Trump di riequilibrare i conti andati fuori controllo sotto Biden e quindi di aprire un fronte con la Cina; la possibilità per Giorgia Meloni di convincere Donald Trump a negoziare con l’Unione europea e non con i singoli Stati, oltre che di impostare un bilaterale Usa-Italia per rafforzare l’iniziativa di un’Italia davvero globale. “Sarei stupito se Meloni alla Casa Bianca non facesse dei cenni su questa materia, magari impostando un bilaterale abbastanza riservato, però un bilaterale che è un precursore di un partenariato strategico tra Italia e Stati Uniti, che tra l’altro non è incompatibile con la doppia realtà in riferimento anche all’Unione europea”.

La partita dei dazi secondo lei è connessa ad altre come ad esempio l’energia? Il prezzo del petrolio è calato, come mai, da quattro anni; la Cina ha sempre più bisogno di energia e in questo momento gli Usa sono i primi esportatori di gnl.

Donald Trump non punta a varare una politica dei dazi con lo scopo di pareggiare o annullare le tariffe, ma lo fa basandosi sulla riduzione del deficit commerciale. Anche quando il 2 aprile scorso ha mostrato la tabella analogica, più che digitale, dei dazi minacciati ha fatto il calcolo del deficit commerciale paese per paese, poi ha diviso per due. Questa è una premessa indispensabile per non dimenticarci che la priorità americana è quella di ridurre il deficit commerciale. La seconda priorità è interna agli Stati Uniti, cioè ridurre il debito che è andato fuori controllo durante l’amministrazione Biden. Una volta chiarito questo aspetto di sovra sistema andiamo poi nel dettaglio.

Partiamo dal petrolio.

C’è una relazione tra energia e dazi, però vedo una relazione molto mediata da tanti altri fattori. La posizione dura della Cina farebbe prevedere che ci fosse una turbolenza nel mercato dell’energia fossile, però in realtà non c’è perché la Cina può tranquillamente approvvigionarsi dalla Russia: inoltre è il vero protettore dell’Iran in questo momento nei confronti degli Stati Uniti e quindi potrebbe impedire all’Iran di far finta di accordarsi con Trump e poi battere cassa. Voglio dire che la Cina è un sistema forte ed è un sistema autoritario per cui può gestire una crisi con molta più facilità di una democrazia.

Con quali limiti?

Ovviamente c’è un limite, perché anche i sistemi autoritari se impoveriscono troppo la popolazione e gli attori rilevanti nel loro sistema poi vengono uccisi. La Cina è preoccupata, ma comunque sta già dimostrando una reazione simmetrica agli Stati Uniti: tratta da forte a forte. La caduta del prezzo del petrolio, che secondo me è contingente ma non strutturale, è un momento di incertezza e che però potrebbe finire. Ciò mette più in difficoltà gli Stati Uniti e si tenga conto che poi lo shale gas, quello ricavato dalle rocce bituminose, devo poterlo vendere a 70 $ al barile. Se si va sotto c’è il rischio di produrre in perdita e questa caduta mette in difficoltà l’industria petrolifera statunitense. Per cui, volendo trovare le cause e quindi le riparazioni in questo momento, quello che possiamo dire è che questa caduta del prezzo del petrolio non è a favore degli Stati Uniti e forse è uno dei motivi perché si apra un momento di riflessione da parte di Washington.

Con la Cina è guerra?

Certo e i cinesi stanno valutando come negoziare. Ma il loro problema non è esistenziale, bensì riuscire a mantenere comunque lo status di potenza simmetrica con gli Stati Uniti perché la loro strategia è di superare gli Usa per potenza.

La marcia indietro sui dazi all’Ue come si inserisce nella contrapposizione Washington-Pechino?

Senza una forte convergenza con l’Unione europea l’America rischia di perdere la guerra con la Cina. Inoltre l’America non ha nessuna intenzione di lasciare la Nato. Trump ha ricevuto in questi giorni molti avvertimenti sia per gli aspetti finanziari sia per quelli geopolitici. L’America non è grande a sufficienza per riuscire a gestire uno scontro con i sistemi autoritari, in particolare con la Cina, quindi deve avere alleati e gli alleati principali restano l’Unione europea e il Giappone. Inoltre rischia di perdere il consenso nel suo elettorato di base. Inoltre se esagera nella frizione con gli alleati, Trump fa solo un favore a Putin e Xi. Lui ha risposto che deve mostrare la potenza dell’America come minaccia per poi poter negoziare, ma un attimo dopo si è accorto che poi gli altri soggetti rispondono.

Come il Canada?

Dopo la minaccia Usa, il Canada ha risposto picche e, anzi, prepara l’invasione di Washington, come dicono i miei ricercatori canadesi, con la bandiera del 1812 quando gli inglesi partendo del Canada bruciarono la Casa Bianca. Con un primo ministro come Mark Carney, che è un uomo dell’elite finanziaria mondiale, io non andrei tanto a scherzare e così anche con la Groenlandia, dove ha provocato una contro reazione perfino tra chi era incline ad accettare un ribilanciamento delle relazioni con gli Stati Uniti. Da un mese e mezzo circa il suo staff lo avverte di non fare certi passi oltre che di tenere anche un linguaggio adeguato alla Presidenza degli Stati Uniti e lui finora ha resistito, dicendo di avere una missione divina. Quindi la buona notizia è che i suoi dell’amministrazione riescono a bilanciarlo più di quello che si pensava. La cattiva notizia, però, è che lui riesce a cambiare idea solo se ha delle evidenze e questo aumenta il rischio di gravi incidenti, soprattutto economici e finanziari.

Però adesso ha preso una strada aperta il negoziato?

Trump senza gli europei non riuscirà ad ottenere grandi cose, né con la Cina né con la Russia. Pensava di riuscire a mettere gli europei sotto e invece gli europei non sono sotto. Il Regno Unito sta negoziando un accordo non solo commerciale ma anche strategico con l’Ue, in pratica c’è il rientro non formale nell’Unione e questo è un segnale per gli analisti americani di un isolamento degli Stati Uniti, che quindi non permette a Washington di riuscire a ottenere una tregua in Ucraina e di riuscire a fare la giusta pressione contro l’Iran.

Tra pochi giorni ci sarà il viaggio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Washington. L’opzione zero per zero è fattibile?

Penso che Meloni abbia delle carte che in qualche modo avrà già comunicato a Trump e ai suoi consiglieri, quindi qualcosa di buono verrà fuori. Meloni comunque ha ricevuto dall’Unione Europea il messaggio di far restare questa missione di dialogo a favore degli altri europei, ovvero convincere Trump a negoziare con l’Unione europea e non con i singoli Stati. Però penso che questo sia un aspetto secondario della missione di Meloni: nel linguaggio agirà come una rappresentante importante dell’Unione europea per dire a Trump di azzerare i dazi reciproci, per aprire a un libero scambio tra i Paesi del G7. Qui il problema non sono i dazi, ma sono le barriere tariffarie. Se si guarda il rapporto dell’Ufficio per il commercio estero degli Stati Uniti c’è una lista per cui gli americani ritengono una barriera non monetaria perché non tutelano, ad esempio, la normativa ambientale europea. In quel caso qualcosa si potrebbe togliere, accanto alla partita degli ogm che in Europa sono vietati per l’agricoltura. Ma in realtà vengono lo stesso, perché il grano che importiamo è ogm, pericoloso solo se fatto ovviamente in un modo non giusto. Aggiungo il divieto al glifosato che è una barriera non valutaria. Non tocca a Meloni andare a negoziare i dettagli, ma far accettare a Trump di trattare con l’Unione Europea invece che con i singoli Stati. Piuttosto, penso che questo aspetto rappresenti solo una metà della visita di Meloni alla Casa Bianca.

E l’altra metà?

Non credo che sarà oggetto di comunicati stampa. Ragionando a voce alta, ritengo che la visita della premier potrebbe essere un’occasione per parlare in maniera riservata e molto franca delle relazioni bilaterali tra Italia e Stati Uniti che non riguardano tanto l’Unione europea, ma la collaborazione su una serie di dossier: come la proiezione italiana in Africa; le anticipazioni della postura statunitense nei confronti del possibile negoziato con l’Iran, che avrà poi un riverbero in tutta l’area del Mediterraneo e con i Paesi arabi; un ombrello americano per la penetrazione italiana di tipo economico nel Pacifico. Tenga conto che gli analisti statunitensi stanno guardando con preoccupazione alla preparazione del Trattato bilaterale economico tra Unione europea ed India o all’accelerazione del Trattato tra Unione europea e Mercosur. E non hanno gradito anche le relazioni con l’Asia centrale. Inoltre l’Italia poi come interesse nazionale è in attesa di vedere il risveglio della Germania, mentre è ben contenta che il Regno Unito stia andando in convergenza con l’Unione Europea, anche se non  rientrerà nell’Unione ma sarà un trattato piuttosto robusto. Osservo però che per la sua proiezione globale nel Pacifico, nell’Africa e nella penisola arabica l’Italia ha bisogno di una forte collaborazione con gli Stati Uniti. Sarei stupito se Meloni alla Casa Bianca non facesse dei cenni su questa materia, magari impostando un bilaterale abbastanza riservato, però precursore di un partenariato strategico tra Italia e Stati Uniti, che tra l’altro non è incompatibile con la doppia realtà in riferimento anche all’Unione europea.

Senza l'Ue, Washington perde contro Pechino. La versione di Pelanda

Conversazione con l’analista e docente universitario: “Ritengo che la visita di Meloni sarà un’occasione per parlare in maniera riservata e molto franca delle relazioni bilaterali tra Italia e Stati Uniti che non riguardano tanto l’Ue, ma la collaborazione su una serie di dossier: come la proiezione italiana in Africa; le anticipazioni della postura statunitense nei confronti del possibile negoziato con l’Iran”

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