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“Se Trump venisse riconfermato, l’Alleanza potrebbe ritrovarsi in uno stato di debolezza terribile in Medio Oriente”. È il commento (pungente) targato Gilles Kepel, arabista e grande esperto di Medio Oriente, direttore scientifico della Middle East Mediterranean Freethinking Platform dell’Università della Svizzera italiana, a Lugano. Autore di “Uscire dal caos” (Cortina Raffaello Editore, 2019), il filoso francese è stato ieri tra i protagonisti dell’evento “Arab Geopolitics 2020”, organizzato a Roma dalla Nato Defense College Foundation. Tra nodo turco, crisi libica e prossime elezioni negli Stati Uniti, Formiche.net lo ha intervistato per capire quale può essere il nuovo ruolo dell’Alleanza Atlantica in una regione delicata alle porte dell’Europa.

Qual è stato il ruolo della Nato nell’area Mena negli ultimi decenni? L’Alleanza è riuscita a comprendere la complessità di questa regione?

La Nato è stata il centro militare della regione fino alla caduta dell’Unione Sovietica, e la sesta flotta statunitense l’attore più importante del Mediterraneo. Le tensioni tra Grecia e Turchia, le tensioni tra i Paesi arabi e Israele e forse anche le tensioni tra Algeria e Marocco erano tutte più o meno sotto controllo. Dopo la caduta dell’Urss, la Nato ha continuato a esistere nell’area soprattutto con la propria flotta. Nel tempo dell’iperpotenza americana, inoltre, l’Alleanza è stata la base della guerra contro il terrore: l’operazione guidata dall’Alleanza in Afghanistan è emblematica.

E ora?

Adesso con la Westlessness, avviata da Obama e continuata da Trump, vedo la Nato in una crisi enorme. Prendiamo ad esempio le azioni intraprese dalla Turchia nell’ultimo periodo: questo importante membro dell’Alleanza, che vanta il secondo esercito della Nato per numero di soldati, ha comprato il sistema missilistico S-400 dalla Russia e ha inviato le proprie navi nelle acque di un altro alleato, ovvero la Grecia, alla ricerca di gas. La reazione statunitense e più in generale quella dell’Alleanza, che appariva necessaria, è stata inesistente. Tutto ciò è stato determinato sia dalla stranissima relazione personale che lega Donald Trump a Recep Erdogan, sia dal rapporto, anch’esso strano, tra Trump e Putin. Ankara ora non può più acquistare i velivoli F-35, ma la reazione Usa non è stata come doveva essere.

Tra l’altro, azioni simili da parte della Turchia hanno messo in difficoltà anche l’operazione europea Irini per garantire l’embargo di armi sulla Libia.

Anche nel caso dell’operazione Irini, infatti, la minaccia fatta da una nave turca a una nave francese non ha generato alcuna reazione da parte dell’Alleanza. Al di là di questi singoli aspetti, penso che la Nato sia paralizzata perché Trump ha dichiarato che l’Alleanza non serve più a niente. Visione supportata anche dal celebre commento di Emmanuel Macron sullo stato di morte cerebrale della Nato.

Quindi che fare?

Bisogna ristrutturare la nostra politica di difesa e sicurezza comune: il vero punto interrogativo è se lo faremo con gli Stati Uniti o senza di loro. Questo perché l’America di Trump, ma anche quella di Obama, non voleva più essere presente “boots on ground” nella regione. Proprio la volontà di Trump di diminuire la presenza statunitense nell’area gli ha consentito di vincere negli “swing states” dove si sono registrati il maggior numero di caduti, tra la gioventù bianca, per le campagne statunitensi in Medio Oriente.

Le premesse per il “ritorno a casa” sembrano cambiate.

La diminuita presenza statunitense nella regione è stata supportata dalla capacità dell’industria petrolifera americana di far fronte alle esigenze nazionali. La maggiore capacità estrattiva ha permesso all’amministrazione americana di ridurre la presenza militare a difesa dell’energia proveniente dal Medio Oriente. Adesso, però, questa condizione si è modificata: nel mondo post-Covid gli Stati Uniti ritorneranno a essere grandi importatori di petrolio poiché i produttori nazionali non saranno più in grado di essere competitivi sul mercato. Sebbene le basi per il “ritorno a casa” non siano più le stesse, molto dipenderà dal risultato delle elezioni: il candidato democratico Joe Biden non vuole seguire la direzione tracciata da Trump né mantenere lo stesso rapporto con il presidente Erdogan.

La Nato ha strutture, come l’Hub per il Sud, che lavorano quotidianamente per favorire un maggiore dialogo nella regione. Lei crede che possano promuovere una rinnovata azione dell’Alleanza nella regione?

Credo che l’unico modo per promuovere una rinnovata azione dell’Alleanza nella regione sia legata a una possibile disfatta elettorale del presidente Trump. L’Alleanza infatti non ha più la fiducia del presidente degli Stati Uniti.

Eppure, dopo le critiche iniziali, Trump ha chiesto un ruolo maggiore della Nato nella regione. L’Alleanza potrà riproporsi come uno degli attori principali per la stabilizzazione della regione?

Molto dipenderà dalle elezioni statunitensi: se Trump venisse riconfermato, credo che l’Alleanza sarà in uno stato di debolezza terribile in Medio Oriente. Quest’eventualità aprirà un nuovo spazio di manovra per Russia e Turchia, indebolendo ulteriormente la posizione dell’Alleanza nella regione.

Spostiamoci adesso sul versante europeo della questione. Lei ha invitato l’Ue ad avere una posizione più incisiva nella regione. Recentemente, però, l’accordo per far fronte alla pandemia ha ridotto il budget per la difesa europea. Alla luce di tutto questo, crede davvero che si assisterà a una maggiore presenza della difesa europea nell’area?

Finché ci sarà la Nato, non ci sarà bisogno di una difesa europea, poiché è la prima organizzazione incaricata di difendere il Vecchio continente. Se l’Alleanza Atlantica si rivelerà disfunzionale, però, non si potrà prescindere dalla difesa europea. Questa è una questione centrale, ma per risolvere il dilemma bisognerà aspettare l’esito delle elezioni di inizio novembre.

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