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Avrà, senza dubbio ragione Roberto Calderoli a controbattere duramente ai dubbi di chi non condivide le magnifiche e progressive sorti dell’autonomia differenziata. Nella sua recente intervista al Corriere della sera ne ha avuto per tutti. A partire dall’opposizione: “Ammesso e niente affatto concesso che il referendum si celebri e passi l’abrogazione, diverrebbe automaticamente il referendum del Sud contro il Nord. Qualcuno vuole assumersi la responsabilità di spaccare il Paese?”

Ma non è forse questa l’accusa che i fautori del referendum rivolgono proprio nei confronti di coloro che quella riforma hanno voluto e portato avanti? Difficile, quindi, stabilire le relative responsabilità. Più semplice prevedere che, alla fine, la spaccatura comunque ci sarà. E allora l’unica soluzione ragionevole è quella di cercare di limitare il danno, subordinando l’attuazione della legge alla preventiva “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Come costantemente sostenuto da Forza Italia, per bocca del suo segretario Antonio Tajani, in ossequio all’articolo 117, comma 2, lettera m della nostra Costituzione (il testo del virgolettato).

“I primi – assicura sempre il ministro nella stessa intervista – arriveranno entro l’anno”. Riguarderanno: Ambiente, sanità, tutela dei diritti del lavoro, governo del territorio” e “istruzione”. Ne prendiamo atto con piacere. Ovviamente dovranno essere corredati dalle relative coperture finanziarie al fine di garantire l’invarianza della spesa in un momento particolarmente complesso per le finanze pubbliche italiane. Nel corso del quale, l’Italia, per attenersi alle nuove regole del Patto di stabilità, dovrà tagliare la spesa pubblica dello 0,5 % del Pil, fin quando il suo deficit di bilancio non rientrerà nei parametri di Maastricht.

Ovviamente Calderoli avrà tenuto conto di questo contesto di carattere più generale, anticipando la discussione che si svilupperà fin dai primi giorni del prossimo mese. Fosse così le preoccupazioni avanzate dai principali centri studi e dalla stessa Banca d’Italia, per bocca del suo governatore al meeting di Rimini, risulterebbero fuorvianti. Errori più che grossolani da attribuire al caldo eccessivo di questo torrido agosto. Magari fosse così, si avrebbe più tempo da destinare ai problemi dell’intera Nazione.

Nella difficile situazione italiana, almeno un elemento va posto in risalto con il giusto rilievo. Secondo gli ultimi dati, l’Italia è divenuto il quarto esportatore netto a livello mondiale, subito dopo Cina, Usa e Germania, avendo superato anche il Giappone. Si calcola che a fine anno il suo surplus commerciale, al netto delle importazioni dei prodotti energetici, sarà pari a 100 miliardi di euro. Bottino destinato a incrementare la sua già cospicua posizione creditoria sull’estero, pari, nel primo trimestre del corrente anno, al 7,9 % del Pil (ultimo bollettino economico della Banca d’Italia).

Un vero e proprio “miracolo” se si considera che solo dieci anni prima il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti era ancora pari al 2,5 % del Pil. E l’Italia era coperta di debiti verso l’estero per un valore pari a circa il 25 % del Pil. In questo lungo periodo, quindi, l’Italia ha fatto passi da giganti: merito soprattutto del Nord che ha contribuito al valore dell’export complessivo per il 68,8 % del totale (dati primo trimestre 2024). Pur trovando in questo sforzo il suo giusto tornaconto, come mostrano i diversi livelli di benessere che caratterizzano la situazione dei singoli territori. Ma è proprio questo il compito del mercato.

Si poteva fare di più e meglio? Certamente anche se non bisogna dimenticare che, a volte, il meglio è nemico del bene. Già oggi il Nord non riesce a utilizzare tutte le risorse che contribuisce a creare, mettendole a disposizione dell’estero, sotto forma di crediti o movimenti di capitale. Accentuare la frattura che divide il territorio italiano potrebbe pertanto produrre un effetto controproducente per lo stesso Nord, rendendolo sempre più dipendente dall’andamento del commercio mondiale, secondo variabili che sono sottratte al suo diretto controllo. Da qui la necessità di non stravolgere un equilibrio che, almeno finora, ha garantito, pur tra mille difficoltà, risultati positivi.

L’atteggiamento di Roberto Calderoli è, tuttavia, comprensibile. Il primo amore non si scorda mai. Ma l’idea della secessione, pardon della devoluzione, appartiene a una diversa epoca storica. Allora c’era la Lega di Umberto Bossi, oggi quella di Matteo Salvini e di Roberto Vannacci. In questo lungo intervallo di tempo, che va dal 1991 (epoca che segnò la nascita del movimento) a oggi, non mancarono tentativi di far vivere il mito federalista. Basti pensare alle numerose leggi varate in proposito (dalla legge 31 del 2003, alla 42 del 2009 ed ai successivi decreti del Governo Monti), in cui si cercò di affrontare quei temi che oggi sono stati, in qualche modo, riproposti (legge n.86 del 2024) dalle ipotesi sull’autonomia differenziata.

Come si può vedere, una storia a dir poco complicata, che le prospettive ancora più incerte della finanza pubblica italiana rendono più fosche. Sarà allora necessario rinunciare a ogni proposito riformatore? Non necessariamente. Si tratterà soltanto di rimanere con i piedi per terra, calibrando opportunamente gli interventi, al fine di evitare inutili scossoni politici, destinati a mettere in forse i risultati finora raggiunti. Che, come si è detto in precedenza, sono andati prevalentemente a favore del Nord. E che un’improvvida eterogenesi dei fini potrebbe rovesciare a tutto vantaggio di concorrenti esteri, che non aspettano altro che il momento migliore per rifarsi.

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Sarà necessario rinunciare a ogni proposito riformatore? Non necessariamente. Si tratterà soltanto di rimanere con i piedi per terra, calibrando opportunamente gli interventi, al fine di evitare inutili scossoni politici, destinati a mettere in forse i risultati finora raggiunti. Che un’improvvida eterogenesi dei fini potrebbe rovesciare a tutto vantaggio di concorrenti esteri, che non aspettano altro che il momento migliore per rifarsi. L’opinione di Gianfranco Polillo

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