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Non serve guardare lontano: basta guardare dall’alto. Capovolgere la mappa e partire dal Polo Nord, come fanno i pianificatori strategici americani, mostra un mondo diverso. Lì, la Russia è un blocco massiccio che domina l’orizzonte dall’Artico. La Cina ha in mano le chiavi di accesso all’Indo-Pacifico. L’America sembra più piccola: l’Alaska è una propaggine, Groenlandia e Canada diventano necessari per il nord, il Mar Rosso come Panama cruciali per l’emisfero sud. Si basa su queste concettualizzazioni l’analisi “Why ships are the new chips”, in cui, mettendo insieme le tessere del puzzle, la associate editor del Financial Times, Rana Foroohar, valuta come tutti quegli ambiti siano oggetto di dinamiche di geopolitica marittima. E con l’industria navale statunitense attualmente un’ombra della sua storia, diventa logico pensare ai piani di Donald Trump.

È in questo scenario infatti, che l’amministrazione Trump ha deciso di rilanciare un’idea che sembrava appartenere al secolo scorso: una strategia industriale navale, la più ambiziosa dal 1941. Allora gli Stati Uniti produssero oltre duemila “Liberty ships” in quattro anni. Oggi, puntano a costruire rompighiaccio, potenziare i cantieri, riattivare la flotta commerciale e integrare capacità civili e militari sotto un’unica regia, centralizzata attraverso un ufficio della Casa Bianca.

A spingere questa svolta c’è l’Artico, che con il cambiamento climatico si sta aprendo a nuove rotte e nuove ambizioni. Ma anche l’instabilità crescente sulle vie del mare tradizionali, da Suez al Mar Cinese, che portano Washington a riscoprire il potere navale. Dalla guerra in Ucraina alle incursioni degli Houthi nel Mar Rosso, fino alle attività cinesi nell’Indo-Pacifico, le rotte commerciali globali appaiono oggi meno sicure che in qualunque altro momento degli ultimi decenni. E con esse, la libertà di navigazione — fondamento del commercio mondiale e della proiezione americana — appare più vulnerabile.

D’altronde, se è vero che tanto nelle dinamiche globali è dominato dal confronto americano con la Cina, allora in questo macro-ambito il paragone diventa impietoso: Pechino dispone di oltre 5.500 navi commerciali; Washington ne ha appena 185. Questo significa che in caso di crisi, gli Stati Uniti rischiano di trovarsi senza mezzi per rifornire le proprie forze armate e con un muro ibrido nei chokepoint orientali più delicati. La gran parte delle forniture in guerra, oggi come un tempo, viaggia via mare. E una flotta insufficiente significa anche una difesa insufficiente. La proiezione militare internazionale è affidata alle portaerei – che mobilitano migliaia di uomini, decine di assetti navali dotati di missili da attacco e sistemi di difesa, dozzine di aerei. Gli Stati Uniti sono ancora in una fase di primazia tecnologica e operativa, come dimostrano assetti del rango della USS Gerald Ford, la più grande portaerei del mondo. Ma l’orizzonte in cui si proietta la competizione potrebbe vedere la Cina in vantaggio.

Un rischio da non correre. Per questo la nuova strategia navale americana, anticipata da un ordine esecutivo atteso a giorni, prevede misure di stimolo all’industria: fondi fiduciari, crediti d’imposta, tariffe portuali contro le navi cinesi, incentivi alla formazione. Il piano è sostenuto da figure chiave dell’amministrazione, dal consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz al segretario di Stato Marco Rubio, e sorprendentemente apprezzato anche da esponenti democratici. È una necessità strategica, e le potenze (che hanno nel Dna la dimensione strategica) in certi casi superano le seppur profonde polarizzazioni politiche.

Il progetto dei rompighiaccio polari è emblematico. Pensato nel primo mandato di Trump e finalizzato sotto l’amministrazione Biden, dimostra che su temi come Artico e sicurezza marittima può esistere una continuità strategica bipartisan. Ed è proprio nell’Artico che la posta in gioco appare più alta. Lo scioglimento dei ghiacci sta aprendo rotte commerciali dirette dall’Asia all’Europa, ma anche possibilità di sfruttamento di risorse, posa di nuovi cavi sottomarini, e quindi nuove vulnerabilità. In un territorio peraltro che è geograficamente dominato dalla Russia e in cui la Cina rivendica diritti diretti.

Il rafforzamento del potere marittimo passa però anche dalle alleanze. La Casa Bianca sa che ricostruire capacità che si sono atrofizzate richiede tempo, energie investimenti, ma anche partner. Canada, Finlandia, Corea del Sud e Giappone sono parte di questa rinnovata architettura ognuno con caratteristiche proprie. L’India rappresenta un altro cardine strategico, sempre più importante nella visione indo-pacifica: la tutela di uno spazio marittimo libero e aperto è il punto di convergenza tra Delhi e Washington. E anche la cantieristica navale italiana, grande eccellenza nazionale, può trovare i suoi spazi.

Gli Usa cercano una risposta simmetrica al controllo esercitato da Pechino sulle sue acque e sulle rotte marittime indo-pacifiche – anche attraverso il sistema di partnership Crink, dove la Cina incontra ambizioni e necessità di Russia, Iran e Corea del Nord. Lo spazio marittimo torna dunque ad essere il luogo per eccellenza in cui si definiscono i nuovi rapporti di forza. Non più solo arena di commerci, ma teatro in cui si esercitano influenza, deterrenza e presenza strategica.

La geografia si fa fluida: l’Artico, una volta margine, diventa asse centrale; il Mar Rosso e l’Indo-Pacifico si interconnettono come nodi di una stessa rete. La sicurezza economica si fonde con quella militare, e le rotte navali — già attraversate da fibre ottiche e catene logistiche — diventano infrastrutture geopolitiche a tutti gli effetti. In questo scenario, la libertà di navigazione non è più solo un principio giuridico: è l’indicatore tangibile dell’equilibrio globale. Chi la garantisce, oggi, detta le regole del gioco.

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Lo spazio marittimo torna ad essere il luogo per eccellenza in cui si definiscono i nuovi rapporti di forza. Non più solo arena di commerci, ma teatro in cui si esercitano influenza, deterrenza e presenza strategica: in una parola una dimensione essenziale della geopolitica globale

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