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L’era in cui viviamo è caratterizzata dalla strana e paradossale convivenza tra profondi rigurgiti antiscientifici e un granitico fideismo tecnologico. E se i primi hanno portato al prepotente (ri)affermarsi nell’uomo della strada di convinzioni che si ritenevano ormai estinte fin dai tempi dell’Illuminismo, quale ad esempio l’idea che la Terra sia piatta e non sferica, il secondo colpisce più frequentemente i decisori nazionali ed i gestori della Cosa pubblica facendo loro ritenere che ogni problema di qualsivoglia natura, sia essa medica o sociale o politica, ammetta una soluzione elettiva basata esclusivamente sulla tecnologia, specialmente se adottata nelle sue applicazioni più sexy e alla moda.

Questa visione salvifica della tecnologia porta purtroppo ad invocarla in modo spesso acritico e talvolta ingiustificato, mentre invece altri eventuali aspetti collaterali del problema da trattare, afferenti ad esempio alla sfera del diritto o agli ambiti organizzativi ed amministrativi, vengono automaticamente ignorati come irrilevanti, se non addirittura considerati di ostacolo per un celere ed efficace raggiungimento della soluzione. E così anche nell’attuale emergenza da Coronavirus, che sta mettendo a dura prova ogni strato della società, la tecnologia viene sempre più spesso invocata come una rapida ed economica panacea in grado di alleviare i disagi della popolazione, sostenere l’opera degli operatori sanitari, migliorare quantità e qualità dei servizi di gestione della crisi, e via dicendo.

La verità è che la tecnologia può certamente aiutare in tutti questi aspetti e forse anche altri, ma da sola e senza un’attenta pianificazione non basta; ed inoltre, per consentirle di essere validamente di supporto “in tempo di guerra”, la sua applicazione non può derogare, se non in termini limitati e rigidamente controllati, dal rispetto di quei principi etici e giuridici fondamentali la cui vigenza diamo per scontata “in tempo di pace”. Purtroppo però la presunta urgenza, e soprattutto la percepita prevalenza degli interessi pubblici legati alla gestione dell’emergenza rispetto a quelli personali legati al rispetto dei principi del diritto o della gestione prudenziale delle risorse, rischiano talvolta di motivare i decisori ad avallare senza indugio soluzioni tecnologiche che, laddove non vi fosse uno stato di emergenza in corso, verrebbero guardate quantomeno con sospetto per via di potenziali rischi intrinseci di sicurezza, privacy, o altra natura.

Nei giorni attuali il dibattito su questi temi si è sviluppato con vigore grazie a due fattori concomitanti. Da un lato vi sono le diverse richieste, fatte da più parti, affinché vengano adottate dalle Autorità soluzioni per il monitoraggio e controllo dello stato di salute o di presunto contagio dei singoli cittadini come quelle applicate in Cina, basate cioè sull’incrocio massivo fra i dati sanitari personali e gli spostamenti del soggetto ricavati mediante georeferenziazione dello smartphone. Dall’altro vi sono le offerte, provenienti da multinazionali tanto occidentali quanto orientali, di imponenti forniture a titolo gratuito di tecnologie per il supporto della gestione della crisi. Sfruttare l’emotività del pubblico per fare bella figura è naturalmente facile, ma in questo campo una decisione avventata presa anche in buona fede e a fin di bene può facilmente trasformarsi in un boomerang, e deve dunque essere valutata bene e nella corretta prospettiva anche temporale.

Va infatti considerato che, nel caso specifico di un’emergenza sanitaria, le tecnologie ICT a supporto vengono usate per il trattamento massivo di dati clinici decisamente sensibili, che oltretutto riguardano non solo i pazienti colpiti ma anche i soggetti ancora sani ma più o meno a rischio; e possono inoltre consentire di prendere automaticamente decisioni anche rilevanti in base ad elaborazioni o inferenze sui loro dati di salute, di movimento sul territorio, di comportamento, e così via. Una compressione dei diritti dei singoli in nome di una tutela collettiva è certamente legittima, soprattutto in un caso del genere; ma occorre riflettere e pianificare bene le cose affinché essa non sia eccedente lo scopo e non comporti magari rischi evitabili, sia durante la fase di gestione dell’emergenza che soprattutto ad emergenza terminata.

Vale giusto la pena di ricordare che i dati clinici delle persone hanno un valore economico assai importante sul mercato per via degli usi, non sempre leciti, che se ne possono fare. Ad esempio la semplice ma accurata conoscenza di alcuni parametri fisiologici di base per una fascia sufficientemente ampia e georeferenziata di popolazione, quali sono banalmente quelli raccolti dai nostri smartwatch o dai dispositivi personali per il fitness, può già certamente consentire di sviluppare inferenze epidemiologiche tali da mettere potenzialmente in grado un eventuale operatore malintenzionato di “fare il prezzo” sul territorio dei farmaci o dei premi assicurativi per le polizze sanitarie, con elevatissima granularità sia spaziale che temporale. Dati più accurati, quali quelli trattati nel corso della corrente emergenza sanitaria, sono ancora più critici e preziosi, e dovrebbero pertanto essere trattati con adeguate garanzie di protezione contro eventuali usi indiscriminati o abusi da parte di chiunque.

Ora è vero che la tecnologia in sé è neutra, ossia né buona né cattiva: ma ciò non deve autorizzare a pensare che, di conseguenza, essa possa essere utilizzata sempre e comunque senza preoccupazione, perché non produrrà mai effetti collaterali negativi. L’uso che di essa se ne fa può non essere altrettanto neutro, e il fine non sempre giustifica i mezzi. Diceva Benjamin Franklin che “chi è disposto a rinunciare ad una propria libertà fondamentale per guadagnare un po’ di sicurezza temporanea, non merita né la libertà né la sicurezza”. Rinunciare ai propri diritti, anche parzialmente ed anche con un’emergenza in corso, è una scelta da valutare attentamente perché potrebbe essere senza ritorno.

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