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Oggi ricorrono sette anni dall’inizio del pontificato di Francesco, da quel giorno in cui al balcone di Piazza San Pietro apparve il gesuita “venuto dalla fine del mondo”. Come è cambiata, da quel momento, la Chiesa? Cerchiamo di tirare le somme con il teologo e docente di studi religiosi della Villanova University Massimo Faggioli, autore del libro “The Liminal Papacy of Pope Francis: Moving Toward Global Catholicity” (Orbis Books), che a fine anno dovrebbe uscire anche in italiano.

Qual è il suo giudizio complessivo?

È un pontificato che ha cambiato molte coordinate nella Chiesa cattolica, e la cosa più importante e irreversibile è che l’ha resa globale, nel senso più profondo della parola. Perché è un papa non solo non europeo o mediterraneo, ma che capisce profondamente le dinamiche del mondo globale e il ruolo della Chiesa. Che non ha paura di sganciare il cattolicesimo da un’eredità del secondo millennio, quella della Chiesa europea, per sganciarla nel mondo globale, che va al di là dell’idea di liberale o conservatore. Questa è la chiave di lettura del suo operato su ambiente, rapporti con l’Islam, con l’Asia, con la Cina specialmente, e delle tensioni evidenti fin dall’inizio con gli Stati Uniti e con la Chiesa americana.

Questo cosa ci dice?

È l’indice che la Chiesa si è voltata dalla parte del mondo globale, e questo ha lasciato alcuni di sasso. Per gli Stati Uniti, essere trattati come un Paese normale è uno shock. È una Chiesa che non ha paura di dire che ci sono ingiustizie e che vanno affrontati con dinamiche che mettono in dubbio gli equilibri precedenti.

Tra i vari interventi di oggi, mi hanno colpito due passaggi. Uno è del presidente della Cei Bassetti, dove, ringraziando il papa dice: “Il popolo attendeva il papa dall’alto e non da lontano”.

Il papato nell’ultimo secolo ha funzionato dall’alto, perché esisteva un certo tipo di carriera o di percorso privilegiato. La carriera di Francesco non avrebbe dovuto portarlo a diventare papa ma a essere marginalizzato, al massimo di essere un profeta di qualche scuola gesuitica. È un Papa che è un sopravvissuto, perché è passato attraverso il crogiolo di moltissime prove. Quello di un gesuita atipico nella Chiesa degli anni ’70, nella guerra sporca in Argentina, con una Chiesa che è la più compromessa, e attraverso il pontificato di Benedetto. È un sopravvissuto, uscito in modo inatteso da una serie di incidenti. Viene da lontano, quindi, non solo geograficamente.

L’altro è del cardinale Tagle, in cui sottolinea l’importanza di ricordare che “abbiamo bisogno di missionari autentici, non solo di operai”.

Tagle dice che la Chiesa deve decidere come convertirsi da un sistema istituzionale e clericale, in cui ha un certo ruolo politico e sociale, a una Chiesa che è più evangelicale, che cioè non conta su precedenti posizioni di potere e di rendita, politica e finanziaria. Questa è la cosa più difficile, perché su tutto il resto si possono trovare accomodamenti più facili: matrimonio, divorziati, sessualità. Convertire la Chiesa missionaria è più difficile, perché non ci sono documenti che possano fare il miracolo. Francesco ha iniziato un processo di possibile soluzione ma che non può accadere solo a Roma.

Ci dà un’immagine che identifichi l’ultimo anno di pontificato?

La cosa evidente è che in questo pontificato gioca un ruolo essenziale l’istituzione del Sinodo dei vescovi, che in precedenza aveva un ruolo abbastanza decorativo, ad eccezione degli anni di Paolo VI. Il Sinodo sull’Amazzonia, assieme al documento post-sinodale, ha svelato dove sta andando questa Chiesa. La preparazione, e quello che si è voluto dire sul Brasile e sull’Amazzonia in fiamme, rivelano dove il pontificato sta andando, con Roma che ha un ruolo di sostegno alle Chiese locali. Dove però alcune, come negli Stati Uniti, sono paralizzate.

Il tema dell’Assemblea del 2022 è “Per una Chiesa sinodale”. Significa una Chiesa meno centralista?

Una Chiesa che conta di meno su sacerdozio e vescovi ma che conta di più su quello che ogni singolo membro della Chiesa può fare. Sinodalità significa una ridistribuzione dei poteri tra centro e periferia, ma anche un’assunzione di responsabilità diversa all’interno della Chiesa. Ma vuol dire anche ripensare ad alcuni meccanismi, verso una Chiesa che agisce in un ruolo meno politico e più spirituale. La sinodalità funziona se c’è una dinamica spirituale, e se quello che viene deciso è frutto di una maturazione collettiva. Che nel mondo di oggi è complicato, e infatti non funziona nemmeno nella politica. Papa Francesco spiega che Chiesa sinodale vuol dire anche una Chiesa dove si prega di più, lo si fa insieme, e dove si rischia di più individualmente.

La riforma della Curia, complessivamente, a che punto è?

La Curia romana è da sempre quel soggetto misterioso, di cui si sa veramente poco su come si sia evoluta nella storia. Ed è stata continuamente l’oggetto di preoccupazione di ogni papa, per secoli. Due secoli fa i cardinali dicevano cose esattamente uguali a quello che si dice oggi. Ogni papa ha cercato di sistemarla, ma la Curia romana è un male necessario. La riforma di Francesco è la più lunga, nel senso che se ne comincia a parlare appena dopo la sua elezione, mentre il documento continua ad essere in gestazione da anni. È un buon segno, nel senso che ci stanno pensando bene. Ma bisogna vedere come sarà, se la struttura per congregazioni verrà mantenuta, quali saranno…

Secondo lei, quali saranno?

Bisogna vedere se sarà un aggiustamento, come per Paolo VI o Giovanni Paolo II, o se sarà una riforma epocale, come nel XVI secolo, con la riforma di Sisto V che nel 1588 ristrutturò tutta la Curia. Ma non c’è da aspettarsi alcuna riforma che soddisfi desideri e appetiti, perché la Curia romana è un soggetto troppo soddisfacente per le critiche di ognuno (ride, ndr). È il bersaglio preferito, percepita come troppo grande, inefficiente, costosa… Però evidentemente la Chiesa di Francesco richiede un ripensamento della Curia. Anche se in parte è già stato fatto, perché lui governa già senza la Curia. O almeno, non conta su di loro come facevano i suoi precedessori.

Con il Sinodo sull’Amazzonia e l’Esortazione Querida Amazonia, alcuni hanno intravisto, sulla questione del celibato sacerdotale, una frenata da parte di Bergoglio, strattonato dalle resistenze più conservatrici. Qual è il suo giudizio?

Una frenata sì, nel senso che è la prima volta in cui papa Francesco non recepisce direttamente le raccomandazioni del Sinodo, votate a larga maggioranza. Quindi una frenata nel senso di un rallentamento, perché non penso che sia un processo chiuso. Subito dopo la pubblicazione di Querida Amazonia ho parlato con alcuni vescovi che erano al Sinodo a Roma, ed erano abbastanza scioccati. Ma non vuol dire che quelle idee non avranno futuro. Francesco ha preso tempo perché lui non è convinto della bontà di alcune proposte, sul ministero sacerdotale per esempio. Non credo che la questione del celibato sia la più importante, ma non è nemmeno secondaria. Il Sinodo è stato quindi interessante perché ha mostrato come il problema della differenza tra il Sinodo e il papa, su alcune questioni, debba essere risolto.

Qualcuno evoca una divisione con la Chiesa tedesca, fino ad un possibile scisma.

La Chiesa tedesca è particolare perché è la Chiesa europea più forte, non solo perché è la più ricca ma anche perché è quella ancora più dinamica, dove ci sono ancora giovani. È una chiesa di popolo, che non è più vero per le altre Chiese europee, se non per la Polonia, che tuttavia è più marginale. La Chiesa tedesca ha una forza particolare, e una storia che la vede portatrice di certe idee, che non inizia oggi ma un secolo fa, o anche di più. È quindi una Chiesa con cui bisogna fare i conti, perché ha preso iniziative che altre non hanno preso. Una cosa simile sta succedendo in Australia.

Come si sta comportando il papa?

Il papa sta gestendo questa situazione con cautela. Io non credo nello scisma, ma la Chiesa in Germania ha domande molto chiare, mentre il papa ha una visione di lungo periodo, in cui alcune riforme richiedono anni o decenni. Il papa è arrivato a questi problemi di recente, mentre la Chiesa tedesca aveva posto certe questioni già nel Sinodo precedente, tra il ’72 e il ’75, quindi parecchi anni fa.

Spesso, però, si parla di una secolarizzazione che nel Nord Europa avanza a grandi passi.

È vero, ma non in Germania, dove la Chiesa esprime ancora una cultura nazionale cristiana, che svolge un ruolo centrale nella vita sociale, culturale e politica. Non è la Chiesa francese, belga o spagnola, dove si deve fare i conti con una cultura anti-clericale, o con un governo anti-clericale. La Chiesa in Germania ha la forza di essere in un paese molto più cristiano di altri. Quindi ha un’agenda che non si può liquidare con il termine progressivismo o laicismo, ma che ha una visione molto più profonda e anche radicale. Come sul ruolo della donna. Però non è facile far capire che si tratta di processi che richiedono molto tempo.

In questi giorni di allarme per il coronavirus, la Cei ha invitato alla chiusura di tutte le Chiese, mentre il papa ha invitato i pastori ad andare dai malati e ha messo in guardia dal prendere misure troppo drastiche. Che sta succedendo, qual è il vero pensiero del papa su questa questione?  

Francesco deve camminare su una linea molto sottile, perché quello che sta succedendo è una sfida mai vista alla libertà religiosa in Italia. Non credo ci sia mai stato nella storia italiana un divieto nazionale di celebrare ogni Messa per un mese, e il papa sta gestendo questa situazione cercando la possibile via mediana tra l’obbedire al decreto del governo e fare il mestiere della Chiesa. È una linea molto sottile su cui camminare. La Cei ha solo raccomandato di chiudere la chiese, e ci sono vescovi che non hanno recepito questo consiglio. A Roma le parrocchie sono chiuse, ma ci sono eccezioni.

Non è facile imporre a tutti questa direttiva.

È una questione molto sottile. Non c’è un modo semplice di dire: chiudiamo tutte le chiese perché il governo ce l’ha detto. Il papa oscilla un po’, nei suoi messaggi e omelie, tra una parola e un’altra. Non ci sono comunicati che possano dare una direttiva univoca. È chiaro tuttavia che la Cei e il Vaticano sostengono lo sforzo dello Stato italiano, ma chiedono anche tolleranza o eccezioni, perché è difficile proibire a ogni ministro della Chiesa di portare i sacramenti, ad esempio, a chi sta morendo.

E negli Stati Uniti, su questo fronte, cosa può accadere?

Il governo americano non darà mai una direttiva come quella del governo italiano, e si rischia il caos perché molti americani semplicemente rifiuteranno la direttiva di andare a Messa. Il governo qui non è preso sul serio come in Italia, quindi mi attendo incidenti, vale a dire gente che rifiuterà un eventuale consiglio di chiusura delle chiese.

Anche in Italia abbiamo sentito di Messe clandestine.

Che questo sarebbe successo, era attendibile. Sono state vicende tollerate dai vescovi, ma anche scoraggiate. È un segnale importante, perché di gente che muore ce n’è già abbastanza, e non si sente il bisogno di gente che cerca il martirio perché si vuole giocare alle Catacombe.

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