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L’epidemia in corso ha dato ulteriore visibilità e centralità alla Cina e al suo modello di Stato: al di là delle ricostruzioni sulle origini del cosiddetto Covid-19, che sono materia riservata per i servizi di intelligence, non vi è dubbio che l’emergenza sia originata a Wuhan e che la strategia seguita in Cina nelle settimane successive abbia condizionato le politiche di molti altri Stati, in primis dell’Italia.

In una prima fase, superato il sogno incauto del “rischio zero” evocato nei saloni televisivi, i nostri policy maker – a volte di difficile individuazione – hanno infatti scelto un lockdown molto rigido e una forte ospedalizzazione, proprio come avvenuto in Cina. Sono stati rapidamente allestiti o riadattati ospedali dedicati, mentre il sistema ospedaliero faceva largo ricorso alle terapie intensive e alla ventilazione assistita dei pazienti con sintomi gravi.

Da più parti, di fronte all’escalation del contagio, quasi ci si rammaricava di non avere a disposizione misure di sorveglianza più invasive della popolazione, al pari delle nazioni estremo-orientali. Col tempo, soprattutto grazie alle buone prassi di altri paesi, in primis della Germania, sono emersi i limiti di questo modello “sino-italiano”: minore ospedalizzazione, ridefinizione della pericolosità del virus e dei trattamenti medici dall’apparato respiratorio a quello cardiovascolare, ammorbidimento delle politiche di lockdown, hanno permesso di fermarsi dopo e di ripartire prima dell’Italia, con numeri molto migliori.

Purtroppo, a quel punto è stato difficile tornare indietro, perché l’elefantiaca struttura messa in piedi dalla burocrazia italiana aveva reso inestricabile il dedalo di provvedimenti conseguenti ad una narrazione emergenziale troppo incentrata sull’obbedienza e sulla paura. Altrove, ad esempio in Svizzera, Svezia, Germania o Olanda, sì è invece puntato sul senso di responsabilità dei cittadini e sono state applicate politiche di confinamento molto meno vincolanti.

Non per questo si possono negare alcuni dati, che, contrariamente a quanto si dice, dimostrano la rapidità di reazione dell’Italia, certamente superiore a quella della stessa Cina. Secondo la cronologia ufficiale, dopo numerosi casi già registrati a Wuhan e nelle zone limitrofe, il 31 dicembre 2019 la Cina ha comunicato all’Oms la possibilità che fosse in corso un’epidemia di un virus sconosciuto. Venticinque giorni dopo, ovvero il 24 gennaio 2020, la città di Wuhan veniva isolata e messa in quarantena.

In Italia, numeri alla mano, tra il primo caso di positività accertato a Lodi (23 febbraio) e la chiusura della Lombardia (8 marzo) sono intercorsi “solo” 16 giorni. La nostra impressione è che, oltre alla vetustà del piano specifico di emergenza pandemica e all’inadeguatezza di mezzi e di buone prassi nel sistema sanitario, l’Italia abbia pagato non la sua lentezza di risposta, come erroneamente si dice, ma l’ibridazione del proprio modello occidentale-mediterraneo con quello cinese: troppo distanti le concezioni di organizzazione e di gerarchia, di libertà e di sorveglianza tra i due mondi.

Le vicende del nuovo Ospedale Fiera a Milano e dell’app Immuni sono la rappresentazione più evidente della non replicabilità del modello. Certo, una nuova Via della Seta è stata ed è un’idea romantica e commercialmente attraente, ma ha finito col mettere a nudo una debolezza strutturale gravissima, che proprio lo stratega cinese Sun-Tzu evidenziava secoli fa: il fatto di dipendere da mezzi di prima necessità che devono essere spostati per lunghe distanze è motivo di debolezza e di sventura sia per gli eserciti, che per le nazioni.

Nel disordine e nell’incertezza del momento, l’auspicio è che si ritorni al senso fondativo del posizionamento ideologico e strategico che ha permesso all’Italia di diventare il Paese che è stato. Su troppi dossier di stretta attualità, dal caso 5G-Huawei al Covid-19, dalla Libia alla liberazione di Silvia Romano, emerge una certa discontinuità rispetto alle strategie e alle alleanze del passato. Una vecchia volpe come Francesco Cossiga ammoniva però che gli insuccessi dell’Italia sono spesso dovuti alla erronea convinzione di essere una grande potenza, e non invece una media potenza, poco idonea a sedersi al tavolo dei grandi del mondo.

Più modestamente, le nostre nonne erano solite ammonirci che “chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quello che lascia e non sa quello che trova”: l’azione di governo, molto ricca di creatività ma meno di esperienza, dovrebbe probabilmente riflettere sul rischio di portare l’idea italiana di democrazia su una Via troppo impervia.

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