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A poche ore dall’incontro tra il primo ministro israeliano uscente, Benjamin Netanyahu, e il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, il tema che coinvolge le riflessioni in Israele è tornato a essere l’Iran. La penetrazione in Medio Oriente della Repubblica islamica, che con lo stato ebraico ha un’inimicizia comune, è un fattore di rischio enorme per Gerusalemme – che da tempo combatte con pezzi di quella galassia di proxy con cui i Pasdaran hanno rafforzato negli anni la presenza iraniana nella regione.

In cima ai nemici israeliani tra le milizie con cui Teheran ha penetrato il tessuto socio-politico, ed economico-militare, di alcuni paesi ci sono la libanese Hezbollah e la palestinese Hamas. Da tempo le intelligence israeliane denunciano il tentativo iraniano di trasformare parti della regione, come per esempio la Siria, in una piattaforma avanzata per attaccare lo stato ebraico. Da anni Israele ha iniziato una campagna di operazioni preventive per impedire ai Pasdaran di sfruttare il contesto caotico siriano, ma anche iracheno, per passare armi alle proprie forze collegate.

Oggi il Jerusalem Post ha pubblicato un articolo analitico che sembra la sintesi di un seminario militare. La domanda iniziale è piuttosto chiara: cosa succederebbe se Israele venisse colpito da un attacco simile a quello di settembre contro la Saudi Aramco? Flashback: a metà settembre una salva sofisticata di missili e droni kamikaze ha colpito due impianti petroliferi dell’Arabia Saudita, producendo un danno pazzesco che ha dimezzato le produzioni petrolifere di Riad. L’azione è stata rivendicata dai ribelli yemeniti Houthi, contro cui i sauditi sono in guerra da quattro anni.

Gli Houthi hanno collegamenti con l’Iran. Quanto meno ricevono da Teheran – o meglio: dai Pasdaran – supporto negli armamenti. Due giorni fa un cacciatorpediniere americano ha bloccato un peschereccio nel Mar Arabico, e quando i Marines sono scesi a bordo per un controllo hanno trovato componenti per missili spediti dall’Iran verso lo Yemen. La guerra civile yemenita è di fatto un dossier che l’Iran ha sfruttato per guerreggiare per procura contro l’Arabia Saudita – e viceversa.

Tornando alla domanda del Jerusalem Post, due le opzioni di risposta. Israele potrebbe agire direttamente contro i responsabili dell’attacco, pur sapendo che dietro c’è la mano iraniana. Per esempio, se subisse un attacco dagli Houthi (eventualità piuttosto remota, ma non del tutto impossibile) potrebbe rispondere attaccando in Yemen. Ma questo lascerebbe spazio all’Iran, che troverebbe una risposta tutto sommato morbida: per un attacco di cui sarebbe responsabile ultimo, o mandante, non subirebbe ritorsioni dirette.

Da qui la seconda opzione: un attacco diretto contro l’Iran. L’opzione aerea è chiaramente quella preferita – il J-Post riporta anche le possibili rotte di azione dei bombardieri – e si sofferma su quella missilistica. Oggi la forza aerea israeliana ha testato un nuovo vettore dalle aree centrali del paese, e non sfugge che questo genere di prove militari sono anche un messaggio di deterrenza.

Certamente l’Iran potrebbe rispondere, e quella che si scatenerebbe sarebbe una guerra totale. Israele, i regni del Golfo, e gli Stati Uniti nell’arco degli ultimi sei mesi hanno fortemente implementato la costruzione di un blocco con cui contrastare la diffusione – e conseguente crescita di influenza – iraniana nel Medio Oriente. Gli Usa hanno dispiegato migliaia di militari in più nella regione, andando contro una delle promesse del presidente – ossia il disingaggio dal quadrante. Israele ha costantemente colpito i traffici di armi con cui i Pasdaran finanziano le milizie collegate.

Ma nonostante questo, Teheran non si ferma. C’è un motivo esistenziale: l’Iran sa che se arretra i suoi nemici possono prevaricarlo. C’è la volontà di giocare influenza geopolitica comunque, per un paese che da sempre ha mire espansionistiche. Poi ce anche una ragione di carattere economica, sostanzialmente collegata alle prime due. Questa l’ha spiegata uno dei saggi dietro al gruppo militare teocratico (i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, sono direttamente collegati alla Guida suprema).

Hassan Abbasi ha detto in televisione (non senza spinta propagandistica, ci si arriva. Ndr) che il ritorno di investimenti come quello che il capo delle operazioni estere dei Pasdaran, il generale Qassem Soulimani, ha progettato in Siria è di “uno a mille”. E ancora: i 70 milioni di euro investiti per combattere l’IS in Iraq attraverso la creazione di un raggruppamento di quelle milizie, dice Abbasi, hanno portato all’Iran 14 miliardi di contratti commerciali con Baghdad. Se fossero veri i dati sarebbero di certo investimenti proficui – tralasciando il sacrificio di sangue a cui molti iraniani sono stati chiamati.

Val la pena sottolineare che però queste parole arrivano in un momento delicato. In Iraq come in Iran da settimane migliaia di persone protestano anche contro questo piano di influenza, giocato come una potenza con mire egemoniche, quando in casa la situazione economica stalla. In Iraq chi è sceso in strada ha più volte cantato “fuori l’Iran”, esasperazione contro quella presenza pressante nel paese. In Iran si marcia contro il caro del carburante e si finisce per contestare certe scelte del governo.

In entrambe le situazioni i Pasdaran hanno avuto un ruolo nel reprimere le proteste. Risultato: cecchini delle milizie filo-iraniane avrebbero sparato sulla folla diverse città irachene (dove il bilancio dei morti durante le manifestazioni ha superato i quattrocento); in Iran la polizia e l’esercito hanno aperto il fuoco contro i manifestanti (e secondo Brian Hook, che per la Casa Bianca gestisce il dossier Iran, i morti sarebbero altri mille). Teheran spinge la propria politica estera velenosa ed è disposto a esporsi con la repressione per difenderla. Anche questa è una forma di deterrenza sul convincimento con cui i Pasdaran difendono questa traiettoria. Una forza che preoccupa Israele e non solo.

Oggi lo Yemen, domani Israele? Dove può spingersi la guerra iraniana

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