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Gli americani direbbero Too big to fail. L’Ilva non può fallire, non deve, è troppo importante, troppo grande. Data ormai per certa la dipartita di Arcelor Mittal da Taranto, per il governo è tempo di trovare una linea il più condivisa possibile, lungo la quale costruire una exit strategy per uscire dall’emergenza. Il gruppo franco-indiano da ieri ha avviato presso il tribunale di Milano le pratiche formali per recedere il contratto che la obbligava a garantire produzione e risanamento dell’acciaieria. Lo stesso vertice di tre ore a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte (che in mattinata è anche salito al Colle per informare Sergio Mattarella sulla situazione a Taranto), ha partorito una verità: le richieste di Mittal vanno ben oltre il ripristino dello scudo penale sui reati ambientali, questione che sembra ormai superata. Il gruppo ha infatti posto tra le condizioni per la prosecuzione degli investimenti l’esubero di 5 mila lavoratori, praticamente la metà della forza lavoro dell’ex Ilva.

LE PAROLE DI PATUANELLI

A tracciare una linea è toccato al ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, ascoltato in un’informativa urgente questo pomeriggio alla Camera e poi al Senato. I toni erano quelli drammatici. Impossibile fare altrimenti: al momento non c’è un piano B, nazionalizzazione o cordata alternativa che sia. Patuanelli è partito da un presupposto. Vista la serietà della situazione, occorre una convergenza di tutte le forze politiche verso una strategia comune. E cioè, sì a un eventuale ripristino (ma parziale) dello scudo legale ma mai e poi mai licenziamenti né tanto meno lo smantellamento del polo siderurgico, che metterebbe in ginocchio l’intera industria italiana. “Chiedo un atto di responsabilità a tutte le forze politiche, anche all’opposizione, ai sindacati e alle parti sociali. Questa situazione la risolviamo se rispondiamo come sistema Paese”, ha spiegato Patuanelli a Montecitorio, accolto da applausi dell’Aula. “Non ho problemi a metterci la faccia ma la risposta deve essere unitaria e univoca. Negli altri Paesi si fa così, non accusandosi”. Nel suo discorso Patuanelli ha anche tirato in ballo i governi precedenti, sostenendo che il recesso Mittal è “solo l’ultimo tassello di un mosaico di una serie di eventi che nel tempo hanno visto il coinvolgimento a vario titolo di tutti i governi e delle forze politiche presenti in Parlamento”

ATTACCO A MITTAL

Lanciato l’appello, (ma la Lega al termine dell’informativa ha chiesto sarcasticamente al governo di andare a casa al posto dei lavoratori) il governo è passato all’attacco di Mittal. “Arcelor ci ha detto che non è in grado di rispettare il piano industriale e di conseguenza occupazionale e questo il governo italiano non può accettarlo” ha detto il ministro. Patuanelli ha precisato che al momento della presentazione dell’offerta vincolante e incondizionata, nel 2017, Arcelor Mittal aveva allegato una nota sulla normativa dell’esimente penale, “notando che la mancata estensione del periodo di non punibilità fino al 2023 rappresentava una criticità, e auspicando una proroga”. Dunque, ha proseguito il ministro, “Mittal non condizionava l’offerta all’estensione dell’esimente penale. La auspicava, ma l’offerta era incondizionata”. Il governo comunque, prosegue Patuanelli, ha esplicitamente chiesto a Mittal “di garantire l’impegno al rispetto del piano industriale, del piano occupazionale, dell’accordo sindacale e del contratto  sottoscritto. Questo è stato l’impegno che Conte ha preso davanti a  vertici di Arcelor Mittal e per tutta risposta Mittal ha risposto in  modo univoco: una produzione di non più di 4 milioni di tonnellate ed  esuberi per 5 mila lavoratori”. Accuse a parte, rimane il fatto che un grande investitore estero che ha puntato 4 miliardi e passa su Taranto, ha deciso di fuggire in meno di 24 mesi. E questo è un problema.

Basta divisioni, nel nome dell'Ilva. L'appello di Patuanelli

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