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Qualunque sia l’esito delle elezioni regionali in Emilia Romagna, le conseguenze si prospettano come una situazione lose-lose, svantaggiosa in ogni caso, sia per il Pd che per il governo giallorosso.
Se, infatti, Stefano Bonaccini riuscisse a conservare la carica di governatore, il suo successo avrebbe certo un valore simbolico di resistenza della sinistra all’avanzata del centrodestra a trazione salviniana nelle regioni del Centro-Nord, ma con ogni probabilità esso sarebbe soprattutto il frutto di una affermazione personale (attraverso la sua lista, o addirittura il voto disgiunto), nel quadro di un costante declino elettorale del Pd, persino in una regione tradizionalmente sua roccaforte. Da questo punto di vista, è particolarmente significativo il fatto che il candidato del centrosinistra abbia fatto ostentatamente campagna escludendo i simboli di partito.

Se, al contrario, prevalesse anche di un solo voto Lucia Borgonzoni, il risultato avrebbe un impatto devastante dal punto di vista sia simbolico sia effettivo per i democrats e l’intera sinistra: esso costituirebbe il tramonto definitivo di un modello di governo e del principale centro di potere della sinistra in Italia, aggiungendo anche l’Emilia-Romagna al blocco ormai decisamente maggioritario delle regioni schierate col centrodestra.

A questi due scenari alternativi, ma sempre sfavorevoli, si deve aggiungere poi un altro trend considerato altamente probabile: il crollo dei 5 Stelle, che imprimerà una ulteriore accelerazione alla disgregazione del movimento grillino (e del quale le dimissioni di Di Maio rappresentano per molti versi una reazione anticipata).

Le conseguenze negative, o addirittura fatali, sul governo Conte bis di ciascuno di questi scenari (amplificati anche da una prevedibile vittoria del centrodestra in Calabria) sono evidenti, e a poco serve da parte del presidente del consiglio cercare di esorcizzarle usando la solita formula del “test locale” che non cambia gli equilibri nazionali. Nel migliore dei casi (per la sinistra e i pentastellati), le consultazioni renderebbero ancora più evidente il fatto che l’esecutivo si fonda su un partito ormai impopolare anche nei suoi feudi più radicati e su un altro in accelerato disfacimento.

Il governo potrebbe cercare di tirare avanti ad oltranza, sfidando l’entropia 5 Stelle e le pulsioni centripete dei renziani, magari cercando di attrarre un manipolo di “responsabili” forzitalisti (prospettiva sempre meno probabile però alla luce dele tendenze elettorali). O potrebbe saltare subito, per lasciare il posto ad un esecutivo semi-tecnico e pre-elettorale, giustificato dal Capo dello Stato con l’esigenza di far svolgere prima il referendum sul taglio dei parlamentari. In entrambi i casi per Pd e pentastellati si prospetterebbe una ulteriore esposizione ad un generalizzato tiro al bersaglio, gonfiando ulteriormente le credenziali di Salvini e dei suoi alleati in attesa dell’inevitabile redde rationem.

In ogni caso, il peccato originale che ha portato a questo vicolo cieco per il partito di Nicola Zingaretti è stata nell’agosto scorso l’infelice scelta di varare il governo Conte bis. Se il segretario non avesse ceduto alle pressioni correntizie, dei poteri “neutri” e dell’establishment Ue e avesse scelto le elezioni anticipate forse avrebbe perso, ma avrebbe neutralizzato la spina nel fianco rappresentata da Renzi e cominciato un processo di attrazione dei consensi grillini che oggi sarebbe quasi completata.

Invece il Pd si è incatenato ad una coalizione inconcludente e allo sbando, e ora ne sconta le conseguenze. Potrebbe essere ormai troppo tardi, anche in caso di elezioni anticipate a breve, proporsi come credibile alternativa alla coalizione salviniana, benché con l’assistenza di un “mini 5 Stelle” ridotto a “indipendenti di sinistra”.

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