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L’intelligence diplomacy – tema al centro dell’intervista di Formiche.net a Sir David Omand, già direttore Government Communications Headquarters, ovvero il servizio di signals intelligence del Regno Unito –  suona quasi come un ossimoro, visti gli ambiti in cui queste due attività vivono e si sviluppano. In realtà, i due domini si intrecciano da decenni e il loro rapporto è sempre stato condizionato dalla finalità per la quale si sacrifica la segretezza a fronte di un vantaggio strategico, politico o militare; dalle esigenze di tutela di fonti, metodi e aree di conoscenza; dal rapporto tra intelligence e potere politico.

La questione che accomuna tutte queste considerazioni è quella dell’uso dell’intelligence, ovvero di quale siano scopo e limiti dell’attività di spionaggio se poi non si possa o non si voglia far uso dei risultati della stessa.

Il problema della tutela di fonti e metodi è trasversale a tutti gli ambiti di applicazione dell’intelligence, sia essa di natura politica, industriale, militare o di contrasto.

Il rapporto intelligence-potere politico è invece evidente nelle tematiche di intelligence diplomacy e la tematica sottostante è quella del ruolo attribuito, o assunto, dall’Intelligence. Se questo si discosta da quello che gli anglosassoni definiscono come speak truth to power, il presentarsi di distorsioni dagli esiti anche drammatici è una possibilità molto concreta.

Nella storia passata come recente possiamo trovare esempi tra loro molto diversi su come siano stati risolti questi conflitti di priorità. Negli anni Sessanta, all’apice della Guerra Fredda, fu anche il ricorso alla disclosure di acquisizioni di intelligence a favorire la risoluzione della crisi dei missili sovietici a Cuba. Durante il secondo conflitto mondiale, per contro, i britannici fecero un uso molto calibrato delle informazioni acquisite dalla decrittazione del traffico cifrato dei nazisti (Enigma), mascherando con l’attribuzione a fantomatiche fonti quelle che si reputava indispensabile condividere con gli allora alleati sovietici sino a giungere a tacerne altre, per quanto importanti, laddove si fosse profilato il rischio di comprometterne il vero metodo di acquisizione.

Del resto, l’intelligence, per quanto si sforzi di esserlo, non è e non potrà mai essere una scienza esatta; informazioni frammentarie, effetti di proiezione, letture contrastanti, esiti di operazioni di disinformazione, lentezze burocratiche, distorsioni nella compartimentazione o nella condivisione di informazioni, paura di sfidare il pensiero corrente, cognitive ignorance, sono tutti fattori che possono incidere sull’esattezza delle informazioni sottoposte al decisore politico, militare o industriale.

Ne deriva il fascino, la difficoltà e il grande potenziale dell’intelligence nei processi decisionali, siano essi tattico come strategici, affidati ai leader nel perseguimento degli interessi nazionali e nella gestione di crisi ed emergenze.

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