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La Germania che quest’anno ha festeggiato i trent’anni dall’abbattimento del muro di Berlino (9 novembre 1989) e con essi il settantesimo compleanno della costituzione federale (23 maggio 1949) è un paese al centro di profondi mutamenti. La Bundesrepublik non è più lo stesso paese che trent’anni fa si apprestava a concludere il processo di riunificazione dopo la rimozione del muro di Berlino[1]. La fine della guerra fredda e la riunificazione hanno messo in moto una serie di processi che hanno inevitabilmente cambiato il profilo del paese e con esso la sua collocazione all’interno dello spazio politico europeo. Così come negli anni Cinquanta veniva sottolineata la discontinuità con la fallimentare repubblica tedesca nata nel 1919 (“Bonn non è Weimar”), allo stesso modo alcuni osservatori tedeschi del nostro secolo hanno voluto richiamare l’attenzione sui cambiamenti in corso nella Germania riunificata (“Berlino non è Bonn”). La Germania sta attraversando una complessa fase di transizione all’interno di un contesto internazionale a sua volta in movimento e in via di ridefinizione. Alcuni osservatori hanno efficacemente tracciato l’immagine di una ‘Germania sospesa’: tra la fine dell’era Merkel (con le importanti riforme da essa introdotte) e l’inizio di una nuova fase politica che ancora fatica a prendere forma e ad affermarsi sulla scena (Bolgherini, D’Ottavio 2018). Ammesso e non concesso che fosse giunta al suo termine con la fine della guerra fredda, la storia si sarebbe dunque rimessa in moto anche nella stabile Germania federale.

Le elezioni politiche che nel 2017 hanno portato alla formazione dell’attuale coalizione di governo guidata da Angela Merkel hanno visto la maturazione di alcuni  importanti mutamenti all’interno della società e dello scenario politico tedesco: la crisi dei tre tradizionali partiti di governo (Cdu/Csu, Sdp, Fdp), la politicizzazione dei temi europei e l’affermazione di Alternative für Deutschland come partito nazionalista alla destra della Cdu/Csu. A partire dalla elezioni del 2005 si è assistito una graduale messa in discussione della logica bipolare che aveva guidato l’evoluzione del sistema dei partiti nella Germania federale a partire dall’era Adenauer. Da un lato il sistema di governo tedesco ha dimostrato una stabilità eccezionale in relazione agli altri paesi europei, fornendo alla Germania un’efficace capacità di adattamento all’evoluzione degli equilibri politici interni; dall’altro il prolungato esercizio della leadership di Merkel nei governi di grande coalizione ha accompagnato il progressivo ridimensionamento delle due Volksparteien (Cdu/Csu, Spd) che nel 2017 sono scese rispettivamente sotto la soglia critica del 35% e del 20% (Bolgherini, D’Ottavio 2018).

Alla crisi di Cdu/Csu, Spd si sono affiancati due mutamenti di grande rilievo: la politicizzazione dei temi europei all’interno della dialettica politica interna e la progressiva affermazione di Alternative für Deutschland. Nella seconda metà del Novecento fino alla nascita dell’Euro il sostegno tedesco al processo di integrazione europea ha rappresentato un caposaldo indiscutibile per tutte le principali forze politiche. La partecipazione attiva della Germania al progetto europeo non era messa in questione in maniera significativa né a livello di élite, né a livello di popolazione. Dopo la firma del Trattato di Lisbona (2007) e con il ruolo di primo piano giocato dalla Germania nella gestione della crisi finanziaria si è assistito a una crescente politicizzazione dei temi europei nel dibattito interno. Dibattito segnato anche dalla sfida lanciata dall’affermazione, specialmente negli ex Länder orientali, del partito nazionalista Alternative für Deutschland. Le posizioni dei partiti in merito al ruolo della Germania in Europa si sono infatti differenziate davanti alla crisi dei debiti sovrani, alla Brexit e ai nuovi fenomeni migratori. Sulle modalità della partecipazione tedesca al progetto europeo si sono riscontrate una serie di divisioni assenti in passato, le quali hanno favorito l’adozione da parte di Angela Merkel di una approccio pragmatico ai singoli problemi dell’Unione Europea. Approccio scettico e distante rispetto alle proposte francesi di rilancio del processo di integrazione politica ed economica.

La crisi dei partiti tradizionali, la politicizzazione dei temi europei e la nascita di AfD rappresentano tre importanti fattori alla base di un processo di ridefinizione dei programmi e delle identità degli attori politici. L’affermazione di AfD, infatti, non ha solo contribuito alla ridefinizione, tutt’ora in corso, del sistema dei partiti, ma solleva  anche numerose questioni relative alla configurazione della identità nazionale tedesca. Identità che AfD non vuole incentrata sul senso di colpa per i crimini nazisti e sul patriottismo costituzionale promosso da Habermas, ma vorrebbe invece dotata di un relativo grado di autonomia intellettuale rispetto alla matrice culturale anglo-americana che a partire dopoguerra ha influito sulla ricostruzione della Germania federale (Rusconi 2019, Limes 2018).

Alla sfida culturale e politica lanciata da AfD corrisponde l’esigenza avvertita da parte della Cdu di ridefinire la propria identità liberal-conservatrice (l’ordoliberalismo) all’interno di un contesto nazionale e internazionale segnato da nuove sfide. Tale esigenza non ha trovato al momento alcuna risposta definitiva. La celebrazione delle virtù e dei successi dell’ordoliberalismo nella storia della Germania federale rischia tuttavia di ridursi a un esercizio nostalgico o velleitario, inadeguato davanti a problemi di oggi che non sono quelli dell’èra Adenauer quando l’ordoliberalismo si sviluppò in sostegno di una modernizzazione del paese in chiave liberale e filo-occidentale. La principale sfida che i cristiano-democratici devono affrontare riguarda in ultima istanza l’elaborazione di un paradigma politico che gli consenta di esercitare efficacemente quella funzione dirigente del processo di integrazione che fino ad oggi la Germania ha rifiutato, pur trovandosi nelle condizioni di svolgere.

Se nel corso degli ultimi decenni la Germania si è distinta per il ruolo di primo piano giocato in Europa, Angela Merkel ha rappresentato il principale interprete politico del protagonismo internazionale della Germania unita. Il suo protagonismo ha dettato il ritmo e ha tracciato i confini della risposta europea alla crisi economica e a quella dei migranti. Tale ruolo si è affermato visibilmente in tutta Europa a partire dal 2009: insieme alla rifiuto tedesco di rivedere la propria politica neomercantilista, di assumersi gli oneri derivanti da un ipotetico approfondimento del processo di integrazione economica (indicativa al riguardo è l’ostilità tedesca verso l’ipotesi degli Eurobond) e dalla incapacità di metter in piedi una comune risposta europea alle crisi geopolitiche scoppiate alla porte del continente (Libia, Siria, Ucraina) (Tooze 2018). Con la chiusura della rotta migratoria balcanica in seguito all’accordo con la Turchia (2016) e soprattuto dopo le elezioni del 2017 Angela Merkel ha assunto una posizione decisamente introversa nei confronti degli affari europei, accogliendo con grande freddezza le proposte avanzate da Emmanuel Macron per accrescere l’integrazione politica ed economica dell’eurozona. Nonostante i programmi di governo presentati da Spd e Cdu durante la campagna elettorale del 2017 (formalmente favorevoli a collocarsi nell’orizzonti di riforma indicato da Macron) e nonostante la firma del trattato di cooperazione firmato con la Francia ad Aquisgrana (gennaio 2019), la linea europeista lanciata dal presidente francese non ha ancora trovato alcun punto di caduta reale presso la classe politica tedesca, ricevendo in cambio freddezza e malcelato scetticismo.

La nuova Commissione europea guidata dall’ex ministro della difesa tedesco Ursula von der Leyen, che non ha nascosto la propria intenzione di garantire maggiore forza e indipendenza all’Unione nel contesto internazionale. Le dichiarate ambizioni geopolitiche della Commissione si scontrano tuttavia con l’assenza di una sovranità politica europea (indispensabile per adottare quella logica di potenza che sostiene ogni progetto di autonomia strategica) e con l’ormai tradizionale linea nazionale tedesca, promossa dalla Bundesbank e dalla Corte costituzionale di Karlsruhe. Le sentenze pronunciate da quest’ultima hanno sollevato la questione della compatibilità della Germania con un ipotetico processo di integrazione federale, sancendo il primato della costituzione tedesca sul diritto comunitario. Il modello promosso dalla Germania, in linea con la tradizione ordoliberale, è la partecipazione ad una Europa confederale (Staatenverbund), priva di autorità federali dotate di autentica sovranità politica (Bundesstaat). L’adozione di un profilo autonomo sul piano geopolitico richiederebbe invece la capacità di prendere attivamente parte all’attuale riconfigurazione degli schieramenti internazionali nell’ambito economico, tecnologico e militare. Tuttavia, l’odierno sentimento neutralista coltivato dalla maggioranza dei cittadini europei (secondo quanto rilevato da un recente sondaggio condotto dallo European Council on Foreign Relations) risulta incompatibile con l’esigenza di prendere posizione sulla scena internazionale accanto alle principali potenze (Usa, Cina, Russia)[2]. Finché il modello europeo promosso dalla Germania sarà quello di una grande confederazione neutrale, secondo l’esempio della Svizzera, ogni ambizione geopolitica della Commissione sarà destinata all’insuccesso, compromettendo così la capacità europea di svolgere un ruolo attivo nello scenario internazionale.

Al di là delle celebrazioni ufficiali per la rimozione del muro di Berlino (evento che con il passare del tempo richiederà di essere storicizzato in maniera adeguata, al di là delle dispute ideologiche), è sull’evoluzione del rapporto tedesco con l’Europa che tali ricorrenze dovrebbero invitarci a riflettere, alla luce delle trasformazioni in corso.  La costituzione occidentale prima, la rimozione del muro e la riunificazione poi, hanno inciso profondamente sulla forma specifica del rapporto che tutt’ora unisce la Germania all’Europa e all’Occidente. Lungi dal rappresentare un evento di portata esclusivamente nazionale, la riunificazione tedesca si colloca al centro di una serie di dinamiche che hanno portato a una profonda ridefinizioni degli equilibri geopolitici dell’Europa centro-orientale. Come ha osservato efficacemente lo storico tedesco Michael Stürmer: «quando la Germania ha guadagnato la sua unità nazionale, la Russia ha perso l’Ucraina» (Stürmer 2018). Il rapporto della Germania con l’Europa  e con le potenze extraeuropee che coltivano i propri interessi al suo interno (come gli Stati Uniti) si trova al centro di tutte le grandi sfide che hanno segnato la storia politica europea a partire dall’unificazione tedesca portata a termine da Bismarck nel 1871. In quest’ottica la storia della Germania risulta esemplificativa della parabola percorsa dallo stato nazionale europeo. Lungi dall’essersi risolta all’interno dell’Unione Europea la questione tedesca continua a rappresentare, seppure in forme diverse, la chiave di volta degli attuali equilibri politici europei. Mettere a fuoco le sfide e i problemi che l’Europa si trova oggi a dover affrontare risulterebbe estremamente difficile, se non impossibile, senza tener presente i mutamenti in corso in Germania negli ultimi decenni, a partire dall’elezione di Donald Trump. È su tali cambiamenti decisivi che è necessario, a nostro avviso, richiamare l’attenzione in occasione delle ricorrenze che si sono festeggiate quest’anno.

 

Riferimenti bibliografici:

Bolgherini, G. D’Ottavio, La Germania sospesa, Il Mulino, Bologna 2019.
G.E. Rusconi, Dove va la Germania? La sfida della nuova destra populista, Il Mulino, Bologna 2019.
Vacca, La sfida di Gorbaciov. Guerra e pace nell’era globale, Salerno, Roma 2019.

Limes. Rivista italiana di geopolitica, 12, 2019.
Stürmer, Deutsche und Putin. Die tiefe Ambivalenz der Deutschen gegenüber Russland, Die Welt, 17/05/2018
Tooze, Lo schianto. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo, Mondadori, Milano 2018.

[1] Come ha recentemente messo in luce Giuseppe Vacca, i muri sono soliti crollare solo a causa di eventi naturali catastrofici. Nel caso del muro di Berlino sarebbe dunque più appropriato parlare di rimozione, richiamando l’attenzione sugli attori politici e sulle condizioni nazionali e internazionali che ne hanno reso possibile l’abbattimento (Vacca 2019).

[2]https://www.ecfr.eu/publications/summary/popular_demand_for_strong_european_foreign_policy_what_people_want

La Germania sospesa tra la fine della storia e la sfida europea

Di Lorenzo Mesini

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