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Dureranno 4 ore, permetteranno l’ingresso di team di assistenza medica e di rifornimento e l’uscita di malati e rifugiati dalla Striscia di Gaza; non sarà un cessate il fuoco e non si permetterà ad Hamas di recuperare terreno; l’offensiva riprenderà subito dopo la fine di queste “pause umanitarie”, come le chiama la Casa Bianca. Sono queste le condizioni che il governo israeliano ha accettato, dimostrandosi particolarmente incline ad ascoltare le direttive (le pressioni) statunitensi. Sono comunque “un passo nella giusta direzione”, come ha detto il presidente Joe Biden, segnando una svolta parziale nella crisi.

La consapevolezza è che Israele vuole combattere almeno finché non verrano liberati tutti gli ostaggi, ma la guerra complica il lavoro diplomatico per la liberazione — e andare a stanare uno per uno gli oltre 200 prigionieri presi dai terroristi il 7 ottobre potrebbe essere un lavoro lungo e complicato. A quanto pare è stato il Qatar, Paese che si è intestato la pratica per gestire una delle varie questioni delicate della crisi, ad averlo detto apertamente agli Stati Uniti.

Pressioni arabe su DC

E Washington ha già avuto altre pressioni da parti del mondo arabo storicamente partner e alleate americane. L’amministrazione Biden ha ricevuto severi avvertimenti dai diplomatici americani nella regione che il forte sostegno alla campagna militare di Israele a Gaza “sta perdendo noi pubblici arabi per una generazione”, dice un cablo diplomatico ottenuto dalla Cnn, attorno cui ruota uno degli articoli di punta questi due giorni del media all news statunitense.

Non è una novità, ma una conferma ulteriore che i Paesi arabi non intendono esporsi e non apprezzano troppo le esposizioni altrui. La situazione è complessa: una fonte dal Consiglio di Sicurezza emiratino ha recentemente spiegato a Formiche.net che il “commitment” agli Accordi di Abramo è ancora totale, perché considerata – nonostante la guerra – la dimensione strategica. Ma nel presente, Abu Dhabi deve gestire anche altri equilibri con le proprie collettività, che per altro sono molto meno complesse e meno coinvolte di quelle dell’Arabia Saudita, o di Bahrein e Qatar.

“Stiamo perdendo molto nello spazio di battaglia della messaggistica”, si legge nel cablo di mercoledì inviato dall’ambasciata degli Stati Uniti in Oman, citando conversazioni con “una vasta gamma di contatti fidati e sobri”. Già, perché oltre al fronte militare il warfare informativo che ruota attorno alla guerra è ben più importante. Il solido sostegno americano  alle azioni di Israele viene visto, avverte il messaggio, “come colpevolezza materiale e morale in quelli che considerano possibili crimini di guerra”. Cina, Russia e Iran stanno sfruttando il contesto per moltiplicare con le loro narrazioni anti-occidentali la situazione.

Il cavo dell’ambasciata è stato scritto dal secondo più alto funzionario statunitense a Muscat e inviato, tra gli altri, al Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, alla Cia e all’Fbi. Chiaramente è solo un cavo di un’ambasciata regionale di un Paese che ha sempre inteso mantenere una linea terza negli affari in corso e per altro potrebbe essere in trattativa con Pechino per fornire uno spazio a una base militare cinese sulle proprie coste. Però fornisce “un’istantanea privata dell’allarme sulla crescente ondata anti-Usa che spazza il Medio Oriente”, spiega la Cnn. E il senso è questo: gli attiri malevoli che non perdono occasione per attaccare Washington e l’Occidente – che nelle elezioni del prossimo anno giocheranno un ruolo – sfruttano sempre contesti pre-esistenti per far penetrare le loro narrazioni. Temi e direttici che potrebbero essere ripresi nella riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di questa sera.

Il lavoro di Washington

“La crudeltà e il disprezzo del presidente Biden per i palestinesi hanno superato tutti i precedenti presidenti degli Stati Uniti”, dice un altro cablo dal Cairo, riprendendo le pagine dei giornali egiziani. Di questa situazione Washington è perfettamente cosciente, e lo conferma l’attività diplomatica sul dossier, guidata dal segretario di Stato Antony Blinken e condotta anche tramite altri alti funzionari come il direttore della Cia. Per due volte nel giro di un mese, Blinken è stato in Egitto, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, poi ha incontrato il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Mahmud Abbas.

Nell’ultimo tour diplomatico, i ministri degli Esteri giordani ed egiziani hanno detto in conferenza stampa insieme a Blinken: “Fermate questa follia”. Già da qualche tempo sui giornali americani sono arrivate le considerazioni di alcuni alti funzionari governativi i quali dicono anonimamente che ci sono aspetti delle operazioni militari di Israele che semplicemente non possono sopportare di difendere. Le richieste agli Stati Uniti di sostenere un cessate il fuoco, arrivate anche indirettamente dalla conferenza di Parigi di ieri, stanno crescendo tra i dipendenti del governo; e altri sono “sconvolti”, dicono le fonti, dalle immagini incessanti di civili palestinesi uccisi da attacchi aerei israeliani.

Anche per questo, Benjamin Netanyahu ha scelto una televisione americana per una nuova intervista andata in onda questa notte. Il premier israeliano ha chiarito che Israele non ha intenzione di occupare Gaza, ma immagina un territorio radicalmente rimodellato e libero da Hamas. “Ciò che dobbiamo vedere è Gaza demilitarizzata, deradicalizzata e ricostruita”, ha detto in onda su Fox News. Alla domanda sulla prospettiva di una pausa umanitaria quotidiana, ha poi risposto: “I combattimenti continuano contro il nemico di Hamas, i terroristi di Hamas, ma in luoghi specifici per un dato periodo, qualche ora qui, qualche ora là, vogliamo facilitare il passaggio sicuro dei civili lontano dalla zona dei combattimenti. E abbiamo iniziato a farlo”.

La partita elettorale

La scelta di Fox come interlocutore potrebbe non essere casuale. La televisione conservatrice, seppure diversa da quella ultra-trumpiana di qualche anno fa, è ancora un riferimento per i Repubblicani e il messaggio che serve mandare a Washington, per Netanyahu, potrebbe dover passare da quella sponda politica. Il contesto è complicato: se da un lato il sostegno verso Israele ha innervosito parti del mondo arabo e fatto scendere l’apprezzamento di Biden tra gli arabi americani, dall’altro ha prodotto un’impennata di consensi tra gli ebrei.

Mike Allen, fondatore di Axios e tra i più informati osservatori del mondo politico americano, sottolinea sulla sua newsletter che “la guerra Israel-Hamas ha evidenziato le divisioni democratiche, ma ha anche spinto un’effusione di sostegno al presidente da parte di politici e leader ebrei in tutto il paese, compresi alcuni repubblicani”. E ancora: funzionari dell’amministrazione Biden hanno detto ad Axios che la solidarietà di Biden con Israele è stata tra i momenti di cui essere più orgogliosi della presidenza. Tra i democratici viene apprezzato Biden per parlare della guerra con “maggiore franchezza” del suo predecessore Barack Obama.

Jon Adrabi, una fundraiser democratico di lunga data che ha recentemente partecipato al ritiro del team finanziario di Biden a Chicago, ha detto ad Axios che Biden “è stato inequivocabile, allo stesso modo nel suo sostegno alle vite ebraiche e contro il terrore. Sono orgoglioso che sia il nostro presidente in questo momento difficile”. Jake Auchinloss, deputato democratico ebreo del Massachusetts, mette forse il punto sulla questione: “Le elezioni presidenziali del 2024 non saranno decise da membri dello staff anonimi a Washington, ma saranno decise negli swing state da elettori che percepiscono un mondo sempre più pericoloso e accolgono con favore la forza e la chiarezza morale che Joe Biden porta ad esso”. Attenzione però al voto arabo in quegli swing state, e per questo si pressa per le pause (che in futuro potrebbero diventare un cessate il fuoco).

Pausa umanitaria. Biden ottiene risultati dalla crisi con Israele

Il mondo arabo pressa l’amministrazione Biden perché eccessivamente sbilanciata su Israele, mentre l’elettorato ebraico statunitense apprezza il lavoro del presidente. Washington ottiene da Netanyahu l’apertura di “pause umanitarie” a Gaza, mentre si lavora per la diplomazia, la lotta ai terroristi di Hamas, e per un cessate il fuoco strutturato

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