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Il governo giallo-verde verrà ricordato anche per aver riportato la Difesa sotto i grandi riflettori mediatici. Non per i programmi avviati, né per nuovi missioni all’estero, ma piuttosto per i litigi e i battibecchi che – dagli F-35 alla leva militare, fino alla chiusura dei porti e all’export di armi – hanno palesato in crescendo la divergenza profonda tra Lega e M5S nel settore, evidente con la presenza del ministro Elisabetta Trenta tra i papabili coinvolti dalle varie ipotesi di rimpasto che si sono susseguite dopo il voto del 26 maggio. Il Movimento ha registrato da subito difficoltà a bilanciare il governo della cosa pubblica con le battaglie della prima ora (difficile dimenticare la campagna “no Muos” o “via dell’Afghanistan”), mentre la Lega ha avvertito valutazioni tecniche e analisi costi-benefici come un freno a mano tirato sull’azione di governo. L’esplosione è avvenuta quando ciò ha coinvolto il rapporto con gli Stati Uniti (non tanto nei proclami, quanto negli impegni concreti), insindacabile per la Lega, meno per il M5S.

ECCO IL VERO “FATTORE USA”

Il “fattore Usa”, ci ha spiegato il professor Carlo Pelanda, non è da interpretare come il favore statunitense per un cambio di governo. “Da un lato, l’amministrazione Trump vuole mantenere il primato globale americano, dall’altro non vuole portare avanti operazioni di ingerenza; si tratta piuttosto di un scambio dare e avere”. Che vuol dire? “Che questa è la prima amministrazione davvero mercantile, che presenta un’America in cerca di rassicurazione sui vari rapporti di amicizia”. Per questo, più che in un’ipotetica “spinta americana”, il fattore Usa va rintracciato nelle ambizioni leghiste. “Salvini ha capito che se la Lega vuole mantenere una posizione nazionale deve avere un alleato internazionale, e in Europa non se ne trova neanche uno; l’alternativa a Washington è arrendersi ai francesi che vogliono prendersi il controllo del sistema tecnologico e industriale del nostro Paese”. In più, ha aggiunto Pelanda, “gli Usa sono l’unico alleato che ha la forza per aiutare l’Italia”.

DALLA LEVA MILITARE AL 2 GIUGNO

Tale consapevolezza ha fatto da sfondo alla crisi giallo-verde, maturata sul fronte della Difesa ormai da diversi mesi. Le punzecchiate ripetute sull’ipotesi di reintrodurre la leva militare (le prime già nell’estate dello scorso anno) sono sembrate poca cosa, soprattutto se confrontate con i ben più gravi botta e risposta relativi alla chiusura dei porti o al ruolo della navi militari, uno dei dossier su cui si è aperta la frattura tra Matteo Salvini ed Elisabetta Trenta. Vere e proprie bordate sono arrivate sulla missione europea Sophia nel Mediterraneo, con il ministro della Difesa a sostenere l’operazione e ad accusare il collega di averne ostacolato la proroga, e Salvini che lasciava “parlare i numeri”, ribadendo l’assoluta contrarietà a manovre che avrebbero alimentato le partenze. Così si è consumato lo strappo, divenuto ancor più evidente nelle polemiche relative al 2 giugno per il tema “dell’inclusione” scelto dalla Trenta, e nella complessa scelta del nuovo capo di Stato maggiore della Marina (ricaduta sull’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone), giunta in extremis. In quei momenti, qualcuno giustificò le frizioni come un naturale strascico della campagna elettorale per le europee, ma in realtà si stavano solo manifestando divergenze ben più profonde, in quel caso tenute a bada solo dall’azione silenziosa e discreta del capo dello Stato Sergio Mattarella.

DIVERGENZE PROFONDE

D’altra parte, il M5S dei primi tempi era quello del “via dall’Afghanistan”, del “no agli F-35” e dello “smantellamento del Muos di Niscemi”. Poi, una volta nell’esecutivo del cambiamento, qualcosa è effettivamente mutato, complice anche la necessità di scendere a compromessi con l’ormai ex alleato di governo. E così, sull’Afghanistan (nonostante l’incertezza di inizio anno su una dichiarata pianificazione di ritiro) è passata la linea dell’Alleanza Atlantica: si va via solo tutti insieme e quando ci saranno i presupposti di sicurezza per il popolo afgano. Una scelta naturale per gli osservatori meglio informati, ma di fatto una posizione sofferta per il M5S. Eppure, nonostante l’allineamento con la politica estera italiana tradizionale (e dunque transatlantica), per il Movimento è rimasto il ricordo delle lotte dei primi tempi, un sostrato difficile da cancellare e tradottosi quasi sempre in “valutazioni tecniche”, analisi costi-benefici o altri strumenti, tutti legittimi, che hanno spesso rimandato decisioni importanti, intesi dalla Lega di Salvini – che lo ha chiarito ieri da Pescara – come un freno a mano tirato sulla macchina del governo.

TRA SIRIA, HORMUZ E LIBIA

È successo ad esempio sul pacchetto missioni, arrivato con tanti mesi di ritardo per poi confermare tutti gli impegni all’estero. È successo su eventuali nuovi dispiegamenti, soprattutto su quelli che avrebbero fatto piacere agli Stati Uniti, dalla Siria allo Stretto di Hormuz, con l’Italia rimasta ai margini di fronte all’iniziativa Usa-Uk per una missione militare volta a frenare l’assertività di Teheran. Un silenzio assordante, a cui si è sommata la difficoltà a promuovere sforzi coordinati in Libia, con Salvini a denunciare le operazioni di Haftar e il premier Conte a definirlo un interlocutore. Fino alla recentissima “politica dello struzzo” del ministro Trenta sugli ultimi bombardamenti del generale libico che hanno sfiorato i militari italiani presenti a Misurata.

LA QUESTIONE F-35

Ma c’è un dossier che dimostra più di tutti le difficoltà dichiarate dalla Lega nel campo della Difesa: il programma F-35. La valutazione tecnica avviata dalla Trenta a inizio mandato ha impiegato diversi mesi priva di arrivare a palazzo Chigi, da cui poi è tornata a palazzo Baracchini senza pareri contrari della presidenza del Consiglio alla conferma degli impegni assunti dal Paese per complessivi 90 velivoli. Eppure, l’Italia è oggi in ritardo di nove mesi sulla manifestazione delle proprie volontà (che non richiederebbero un impegno finanziario immediato), con ripercussioni notevoli che potrebbero abbattersi sullo stabilimento novarese di Cameri. Sul tema, la Lega è sempre stata compatta: gli impegni presi si rispettano. Lo diceva da Washington Matteo Salvini e lo ha ribadito ieri (come già in passato) il sottosegretario Raffaele Volpi, evidentemente preoccupato dai rischi per Cameri, per il sistema-Paese e per il rapporto con gli Stati Uniti.

AMICIZIA E IMPEGNI SECONDO PELANDA

È qui che si inserisce il “fattore Usa”. L’ambizione di essere partner privilegiato degli Stati Uniti, ha notato Pelanda, presuppone “di rispettare impegni che derivano dal rapporto di amicizia”, con l’incertezza sul programma F-35 che è ormai diventata “davvero imbarazzante”. La scelta per il Joint Strike Fighter, ha ricordato Pelanda, “era determinata dall’intenzione, oltre che di dotarsi di un’avanzata macchina aerea, di agganciare la sicurezza italiana al sistema di sicurezza degli Stati Uniti e della Nato”. Da qui poi sono arrivate le opportunità economiche, con lo stabilimento di Cameri che ha rappresentato “un passo in avanti per l’industria italiana”. Ora, l’indecisione che copre il programma da diversi mesi mette tutto questo in una posizione scomoda, tale da contribuire alla scelta di Salvini sulla fine dell’esperienza giallo-verde.

IL FASCINO PER IL DRAGONE

A ciò vanno aggiunte le preoccupazioni arrivate da Washington per il fascino cinese manifestato dal M5S, deflagrate quando Giuseppe Conte firmò a marzo il discusso memorandum con Xi Jinping, su cui Salvini non si espose (allora l’aria di crisi era ancora lontana) pur senza nascondere le perplessità leghiste. Con i rapporti logori degli ultimi tempi, le divergenze profonde su questo tema sono esplose quando hanno iniziato ad affiorare i rischi di mancata conversione del decreto golden power sul 5G. Dalla Lega sono partite bordate rivolte ai 5S, considerati responsabili di un affossamento che mette in pericolo la sicurezza nazionale e che non è per nulla gradito agli Stati Uniti.

DOSSIER APERTI

La questione adesso rimane, con la crisi di governo che potrebbe complicare tanto il dossier F-35 quanto il decreto golden power. Improbabile che nel corso della campagna elettorale l’uscente ministro della Difesa possa confermare gli impegni per un programma osteggiato dal Movimento. Altrettanto difficile che le Camere possano tornare a discutere del decreto. Eppure, nota oggi su La Stampa l’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante permanente dell’Italia alla Nato (uno che di impegni internazionali se ne intende), anche un esecutivo in crisi ha il dovere di occuparsi dell’ordinaria amministrazione. Ciò vale per impegni già presi, soprattutto se chiamano in causa interessi strategici, industriali e di sicurezza nazionale.

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