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Si fa un gran parlare, soprattutto in questi ultimi tempi, della necessità di riavere un Centro politico. Molti stanno diventando centristi pur non avendo alcuna dimestichezza con questa cultura politica o, peggio ancora, avendo un’indole radicalmente alternativa rispetto a tutto ciò che è seppur lontanamente riconducibile al Centro.

Al riguardo, rileggere il passato e proiettarlo nel presente, da sempre, è un esercizio difficile e complicato. Di norma è sconsigliato. Basti pensare alla litania della sinistra radicale e massimalista e dei suoi gazzettieri giornalistici sul “ritorno del fascismo”. Ormai è quasi diventato un ritornello goliardico perché, non avendo alcuna dimestichezza con la realtà quotidiana, si limita ad essere un puro slogan astratto e del tutto virtuale. Ma, per tornare al passato e pur senza limitarsi a rimpiangerlo, c’è un aspetto che – almeno per quanto riguarda il campo del cattolicesimo popolare e sociale – non può e non deve passare sotto silenzio. E riguarda proprio la storia, l’avventura e l’epilogo del Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli, Gerardo Bianco e Franco Marini di cui oggi, qua e là, qualcuno vorrebbe appropriarsi di quel ruolo.

Si tratta di una esperienza politica, quella del Ppi, carica di signicato culturale, di storia politica e di progettualità di governo. Una esperienza che ha giocato un ruolo decisivo e qualicante in una fase politica e storica molto delicata del nostro paese. Un partito che ha saputo riscoprire una gloriosa e storica cultura politica collocandola in un contesto che apriva le porte a quella radicalizzazione del conitto che è poi diventata un aspetto costitutivo del sistema politico italiano. E, soprattutto, un partito che grazie alla sua classe dirigente ha saputo declinare quella “politica di centro” oggi quotidianamente e unanimemente rimpianta ed evocata. E, infine, un partito che grazie alla sua autorevolissima classe dirigente – a livello nazionale come a livello locale – ha saputo ritagliarsi uno spazio importante nella cittadella politica italiana confrontandosi ad armi pari con gli altri partiti. Tanto della maggioranza quanto dell’opposizione dell’epoca.

Certo, tutti conosciamo ancora l’obiezione principale. Perché si è sciolto quel partito? O meglio, perché si è deciso di confluire in un altro partito, la Margherita, sapendo che si apriva una pagina molto diversa da quella che aveva dato vita al Ppi? Sono domande del tutto legittime a cui ciascuno di noi può dare una risposta più o meno convincente.

C’è un elemento, però, che merita di essere ricordato senza polemica e senza alcun pregiudizio quando si parla dell’avventura del Ppi. La volontà, la scelta e la decisione di Romano Prodi nel 1999 di dar vita ad un altro partito, il cosiddetto “Asinello”, che si presentò alle elezioni europee dello stesso anno e che rispondeva ad un solo obiettivo: mettere in crisi politica, e ovviamente elettorale, il Ppi. Il suo ruolo politico, il suo progetto di governo e la sua funzione nella società italiana. Obiettivo ovviamente centrato che decretò una flessione elettorale del Ppi creando, di fatto, le condizioni per il suo indebolimento politico e il suo rapido dissolvimento.

Ma, al di là di questo fatto oggettivo e quasi indiscutibile, va comunque sottolineato che l’esperienza concreta, ed avvincente, del Ppi è ormai consegnata alla storia. Perché, come ovvio, le dinamiche politiche e soprattutto organizzative non possono essere meccanicamente replicate. Al di là e al di fuori di chi si ritiene, goliardicamente, erede di Mino Martinazzoli o di Franco Marini o di Gerardo Bianco. E questo perché la vicenda politica del Partito Popolare Italiano, di straordinaria importanza in una precisa fase storica, non è banalmente e burocraticamente riproponibile. E la presenza pubblica dei cattolici popolari e sociali, in attesa che si creino le condizioni politiche e culturali – reali e non virtuali – per una organizzazione laica ed autonoma, si deve qualificare oggi sul terreno di una progettualità politica e di governo che sappia riattualizzare quella che comunemente viene definita come “politica di centro”.

Dopodiché si potrà verificare se c’è la possibilità concreta di fare un tentativo politico ed organizzativo che sia capace di rappresentare settori sociali e mondi vitali della società italiana. Senza illusioni ma anche, e soprattutto, senza appropriazioni indebite e fuorvianti.

Il Ppi, il Centro e le illusioni. Il commento di Merlo

La vicenda politica del Partito popolare italiano, di straordinaria importanza in una precisa fase storica, non è banalmente e burocraticamente riproponibile. E la presenza pubblica dei cattolici popolari e sociali si deve qualificare oggi sul terreno di una progettualità politica e di governo che sappia riattualizzare quella che comunemente viene definita come “politica di centro”. Il commento di Giorgio Merlo

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