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Sono trascorsi poco più di nove mesi dalle elezioni politiche nazionali e sei dalla formazione dell’attuale governo. È un tempo sufficiente per tracciare prime analisi e valutazioni sullo stato di salute dell’informazione pubblica con particolare attenzione alle Tv.

Partiamo allora da una preliminare e necessaria constatazione per leggere con chiarezza i dati del monitoraggio televisivo Agcom degli ultimi mesi: in un Paese di democrazia consolidata, e in presenza di un sistema informativo maturo, non dovremmo trovare scostamenti rilevanti nei comportamenti informativi.

Se davvero sono stili editoriali e non campagne di parte, perché mai dovrebbero cambiare a fronte dell’esito dei turni elettorali che, per definizione, registrano risultati cangianti nei sistemi democratici? Se così non è, l’autonomia del giornalismo diventerebbe un concetto retorico e ingannevole.

Posta questa premessa, è giusto dire che nel periodo successivo alla campagna elettorale e alla costituzione del nuovo governo non è riscontrabile una significativa riduzione di capacità informativa e di completezza giornalistica. Diventa allora rilevante riconoscere la vera novità nell’informazione sulla politica su cui una specifica influenza del carattere militante di questo governo agisce certamente.

Il rischio più serio per la continuità di una “cultura” dell’indipendenza nella comunicazione non è certo nelle redazioni e nei giornalisti quanto nella postura comunicativa dalle nuove “forze politiche”. Occorre dire con chiarezza che vincere le elezioni non significa stravincere nei media, che sono e debbono restare sistemi autonomi della società civile.

Fermo restando che stiamo commentando dati che possono essere influenzati dall’euforia della vittoria, leggendoli in sequenza essi preludono ad una sola spiegazione plausibile: la singolare riduzione di notizie relative a 5 Stelle e Lega (intesi come soggetti politici), rispetto a qualunque parametro relativo ai risultati elettorali e ai seggi parlamentari, è largamente compensata dall’inflazione di notizie, interventi e interviste che riguardano i due vicepremier. Nei media informativi essi sono assurti a consoli della comunicazione, grazie alla ripetitività del loro stile comunicativo. E noi sappiamo dal Romanzo degli italiani che “spesso, in simili circostanze, l’annuncio d’una cosa la fa essere”.

Certo, non sorprende un rigonfiamento della personalizzazione politica, in tempi di crisi e di semplificazione; colpisce di più il rischio che si può intravvedere sullo sfondo: uno slittamento progressivo dell’informazione dal processo deliberativo all’esecutivo. Una tendenza di questo genere non è una novità radicale, ma il modo in cui si squilibrano oggi i rapporti configura una novità assoluta.

Ecco perché la delibera, assunta all’unanimità dall’Autorità il 21 dicembre scorso, raccomanda “parità di trattamento” e capacità di “assicurare la puntuale distinzione” tra funzioni istituzionali e attività politica. Tacere sul significato di un andamento di dati notevolmente ripetitivo significherebbe non esercitare la funzione di garanzia.

Per di più, le diverse risposte del sistema misto aprono al dubbio che emittenti stancamente definite commerciali presentino “equilibri più avanzati” nella rappresentazione del pluralismo rispetto al Servizio pubblico. Si capisce meglio, a questo punto, l’allarme di Paolo Pombeni (“Di chi è la Rai” su La Rivista il Mulino), rilanciato da Francesco Devescovi (“È irriformabile la Rai?”, nella stessa rivista): “La Rai invece di avere una funzione formativa sull’opinione pubblica finisce per diventare un’agenzia di sostegno delle politiche del governo”.

Ecco perché occorre rivolgerci a quelle emittenti televisive che, anziché imprimere una propria linea editoriale, il sale di un giornalismo libero, sembrano attratte dai profili più virali dei politici nei social. L’effetto paradossale si evince nella riproposizione, durante i Tg, di videomessaggi lanciati dai politici sulle proprie pagine. Tra l’altro, occorre riflettere se questo non costituisca un uso improprio, e per di più gratuito, di risorse pubbliche, o almeno se questo non snaturi l’immagine “istituzionale” delle emittenti trasformandole in uffici stampa del potere.

Come Agcom, abbiamo attentamente registrato cambiamenti come questi durante le nostre indagini sistematiche che periodicamente realizziamo su completezza e pluralismo dell’informazione. Ne emerge un chiaro e continuo spostamento dalle offerte giornalistiche sulla politica, intesa come partiti e posizioni diverse, a un doping di notizie che riguardano sostanzialmente i due vicepremier.

Qui non c’entra nulla il rispetto della libertà editoriale. Uno spazio troppo ampio (ben oltre il 50% del tempo complessivo) dedicato a governo, premier e vicepremier nell’arco di sei mesi, riduce inevitabilmente la possibilità per il cittadino di avere un’informazione plurale sull’intero scenario politico compromettendo, dunque, la libera formazione delle opinioni. Se dunque, da un lato, non si colgono segni di eventuali atteggiamenti di soggezione ai vincitori, resta però una rilevante preoccupazione relativa al fatto che i telegiornali non possono essere le dirette dei vicepremier. Non sono partite di calcio.

In tempi di cambiamento, abbiamo bisogno più che mai della mediazione giornalistica che non è riducibile al ruolo di telecronisti sportivi. Ciò significa prendere atto che l’opinione pubblica ha diritto di considerare il giornalista un mediatore e un conduttore, mentre l’esigenza di un contraddittorio autentico non può che essere rappresentato da un diverso parere politico.

Ne discende la necessità di pensare ad una messa in sicurezza dell’informazione politica. È vero che le norme del settore appartengono ad un’era analogica, ma ciò rende più impellente la necessità di attenersi ai principi sanciti nel Testo unico dei servizi di media (ed in particolare all’articolo 7).

Si chiede una “presentazione veritiera dei fatti e degli avvenimenti, in modo tale da favorire la libera formazione delle opinioni, l’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità”, ma anche “l’assoluto divieto di utilizzare metodologie e tecniche capaci di manipolare in maniera non riconoscibile allo spettatore il contenuto delle informazioni”.

A ciò si aggiunge l’Atto di indirizzo dell’11 marzo 2003 della Commissione parlamentare Rai: “Tutte le trasmissioni di informazione… devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell’informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio”; indicazioni recepite dall’Autorità in una propria delibera di tredici anni fa, che estende tale ambito applicativo a tutte le emittenti.

In un’era in cui la comunicazione ha subito una radicale accelerazione, il compito delle emittenti tradizionali deve essere quello di consentire un’ampia e plurale cognizione dei fatti politici del nostro Paese. Il vantaggio competitivo che il medium Tv può vantare rispetto alla rete è proprio questo: essere ancora il faro di riferimento per il cittadino. Dai dati del nostro Osservatorio periodico sulle comunicazioni, la televisione si conferma ancora il mezzo più seguito rispetto a radio, stampa e rete; quest’ultima attende dietro l’angolo che la Tv sforni qualche evento da dare in pasto a commenti, condivisioni, like etc.

Cruciale in questo contesto dunque è il ruolo del giornalista quale arbitro di linea. È lui il vero garante delle nostre libertà, tanto più se si pensa alle elezioni europee di maggio, quando le emittenti dovranno garantire una rappresentazione in contraddittorio delle posizioni delle forze politiche. Solo questa può consentire al cittadino-elettore di cogliere le ragioni che animano le diverse offerte politiche in campo, garantendo il corretto svolgimento del confronto politico su cui si fonda un sistema democratico.

 (Articolo pubblicato su Avvenire a firma di Mario Morcellini, commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e consigliere alla Comunicazione Sapienza Università di Roma)

 

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