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Tempo di conti per Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti. Il 2025 che si sta per chiudere verrà ricordato, essenzialmente, per la credibilità recuperata sui mercati, che ogni anno prestano all’Italia tra i 300 e i 400 miliardi di euro, finanziandone la spesa pubblica. Lo spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi, in queste ultime settimane, è sceso ai minimi dal 2008, l’anno di Lehman Brothers, toccando giorni fa i 64 punti base e consentendo così all’Italia di beneficiare di un costo del debito sovrano inferiore a quello della Francia, da sempre la bacchettona d’Europa, insieme alla Germania. Merito di quattro manovre in batteria, all’insegna della prudenza e del pragmatismo e totalmente prive di alchimie, che oltre agli stessi mercati hanno convinto le agenzie di rating (un mese fa Moody’s ha rivisto al rialzo il giudizio sullo Stivale, per la prima volta dopo 23 anni).

Ed è proprio da questa base che dovrà partire l’azione del governo nel 2026. I punti di forza sono essenzialmente due. Primo, gli investitori esteri, se il governo non cambierà la sua filosofia, continueranno a sostenere le finanze italiane, comprando titoli con un rendimento contenuto. Lo Stato si assicurerà risorse fresche, pagando un prezzo relativamente basso. Secondo, entro giugno l’Europa dovrebbe mettere in naftalina la procedura per deficit eccessivo, scattata oltre un anno fa. E questo in virtù del fatto che, secondo gli stessi calcoli dell’esecutivo incastonati dentro l’ultimo Documento di finanza pubblica (l’ex Def), parlano di un disavanzo al 2,8% entro fine 2026.

Questa combinazione apre uno scenario interessante, sotto forma di nuovo spazio di bilancio. In altre parole, il prossimo anno il governo avrà la possibilità di mettere a terra una manovra dalla gittata superiore. Anche perché le scorie del Superbonus che ha devastato i conti italiani dovrebbero essere definitivamente smaltite. Se, insomma, fino ad oggi e nel nome di quella prudenza che tanto piace ai mercati, Palazzo Chigi e il Tesoro si sono limitati a finanziarie basiche, incentrate su tagli chirurgici alle tasse sul ceto medio, nel 2026 si potrà fare qualcosa di più. Magari una riforma dell’Irpef organica e che abbracci tutti gli scaglioni in essere o una maggiore incisività sulle imprese, ancora in attesa di autentiche misure per la crescita.

Rimane però un problema, ovvero il Pil. Calcoli dell’Istat alla mano, l’Italia non andrà il prossimo anno oltre lo 0,8%. Troppo poco per un Paese che ha bisogno di tornare a macinare crescita. Certo, dinnanzi a una Germania in panne e ancora alla ricerca di un modello industriale capace di resistere alla pressione della Cina e a una Francia in piena crisi di identità, la situazione italiana è decisamente rassicurante. Anche se con gli alibi non si va mai troppo lontano.

E mai dimenticare le grandi questioni geopolitiche. Sforzi dell’esecutivo a parte, ci sono variabili che volenti o nolenti impatteranno sulle traiettorie del Paese. L’Europa è ancora schiava della Cina, a cominciare dalle terre rare. E ancora incapace di mettere a terra una risposta convincente che possa arginare lo strapotere del Dragone. Per fortuna, qualcosa si è mosso a Bruxelles. Il pre-pensionamento dei motori a benzina e diesel è stato definitivamente accantonato e il Green new deal smontato. Ma resta il fatto che la Cina oggi produce di più e a costi minori. La partita dell’Europa si giocherà tutta qui e anche di questo l’Italia e il suo governo non potranno non tenere conto.

Più soldi per imprese e fisco. L'anno che verrà per Meloni e Giorgetti

Il 2025 che si sta per chiudere ha certificato l’ottimo stato di salute delle finanze italiane, grazie a un debito meno costoso e a un disavanzo in fase di ripiegamento. Un piccolo grande capitale che nel 2026 permetterà al governo di lavorare a una manovra più organica e consistente. Ma rimangono due grandi incognite, il Pil e la questione cinese

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