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Per chi si interessa di intelligenza artificiale, in settimana molto si è parlato della prolusione dell’ex premier Mario Draghi in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Milano di lunedì scorso, interamente dedicata ai ritardi dell’Europa nei confronti di Stati Uniti e Cina in una tecnologia chiave per la crescita e il progresso dell’umanità ma anche per il mantenimento di una sovranità statuale effettiva nei prossimi anni e decenni. In realtà chi segue con attenzione i rari ma sempre ficcanti discorsi dell’ex governatore di Banca d’Italia e della Bce ha notato una riflessione più approfondita che in passato sul principio di precauzione e su come una sua applicazione estesa nella regolamentazione Ue debba essere controbilanciata da un’analoga attenzione al principio di innovazione. Un concetto meramente enunciato nel suo Rapporto sul futuro della competitività europea ma proprio perché non articolato rimasto al momento lettera morta.

Di fronte ai docenti e agli studenti del Politecnico, Draghi gli ha dedicato più di qualche frase, sostenendo che “per ragioni storiche e culturali, l’Europa ha spesso adottato un approccio improntato innanzi tutto alla cautela, radicato nel principio di precauzione: l’idea che, quando i rischi di una nuova tecnologia sono incerti, l’opzione più sicura sia rallentare o limitarne  l’adozione. Questo metodo può essere appropriato in ambiti chiaramente delimitati, come in alcuni settori della tutela ambientale. Ma è inadeguato per tecnologie digitali ad uso generale come l’IA, dove l’ampiezza – e la variabilità – degli esiti potenziali è enormemente maggiore”.

Il principio di precauzione affonda le sue radici negli anni Settanta in Germania, affermando l’idea che la politica ambientale dovesse anticipare i rischi, non limitarsi a reagire a danni già manifesti. Da qui il principio si è progressivamente diffuso nel diritto internazionale, trovando riconoscimento in documenti chiave come la Dichiarazione di Rio del 1992. Tuttavia, è soprattutto nell’Unione Europea che esso ha assunto una struttura normativa compiuta e un ruolo centrale nei processi decisionali, allargandosi a macchia d’olio anche a tutto ciò che avesse a che fare con l’innovazione, dalle biotecnologie e gli organismi geneticamente modificati all’intelligenza artificiale, per l’appunto.

Intendiamoci, non stiamo sostenendo che sia scorretto analizzare preventivamente i possibili rischi delle tecnologie e costruire un quadro regolamentare che ne tenga conto provando a prevenirli o quantomeno a mitigarli. Come ha ricordato Draghi a Milano, “in tali contesti, i regolatori devono inevitabilmente formulare giudizi ex ante, assegnando pesi a rischi e benefici prima che i fatti siano pienamente noti. Semplicemente lasciare che nuove tecnologie si diffondano senza controllo, come accaduto con i social media, non è un’alternativa responsabile. Ma bloccare il potenziale positivo prima ancora che possa emergere è altrettanto sbagliato. Una politica efficace in condizioni di incertezza richiede adattabilità: la capacità di rivedere le ipotesi, riequilibrare quei pesi, adeguare rapidamente le regole man mano che emergono evidenze concrete, sui rischi e sui benefici”.

In effetti, Draghi ricorda come l’AI Act (e tanti altri interventi normativi di questi anni a livello Ue) sia il frutto di un senso di colpa per non aver saputo prevedere i rischi rappresentati dai social media e in generale da Internet ma di essere intervenuti solo ex post (e probabilmente fin troppo e se non altro in maniera poco coordinata, come testimonia il tentativo in corso attraverso il Digital Omnibus, proposto dalla Commissione europea lo scorso 19 novembre, di disboscare ma soprattutto di ordinare la giungla legislativa attuale). Ma è anche vero che, a differenza dei social, l’IA appare come una leva formidabile per la crescita economica ma anche per la stessa competizione tra stati, condizionando l’equilibrio tra le nazioni. Ecco perché una valutazione seria dei rischi, per l’IA ma anche per altre tecnologie emergenti rilevanti, dovrebbe considerare anche il rischio di non innovare, cioè di negare ai cittadini e alle imprese europee la possibilità di ricevere gli stessi servizi e di competere alla pari con i Paesi extra Ue. D’altronde, a parte il ritardo europeo nella corsa all’IA, stiamo vedendo come sempre più frequentemente i servizi più innovativi offerti da aziende non europee siano lanciati nel vecchio continente con mesi di ritardo, sempre se davvero lo sono e con le stesse identiche caratteristiche.

Come ho già avuto modo di scrivere durante il cammino legislativo dell’AI Act, alcune applicazioni considerate ad altro rischio (penso alla selezione del personale, ad esempio) sembrano partire dal presupposto che ciò che non fa l’IA sia il migliore standard possibile. E dunque il personale sia sempre o quasi assunto secondo criteri di merito, trasparenti, senza alcuna discriminazione, ecc. Qui, ci tengo a dirlo, non sto parlando necessariamente di azioni consapevoli, eventualmente (ma con tutte le difficoltà che sappiamo) perseguibili in sede giudiziaria, ma di comportamenti in gran parte involontari e inconsapevoli. È evidente che se il benchmark al quale si confronta l’IA è la perfezione umana scesa in terra si crea istantaneamente un bias anti-innovazione.

Piuttosto, come affermato sempre da Draghi al Polimi, “il primo passo per riportare l’Europa sulla strada dell’innovazione è quindi cambiare questa cultura della precauzione: ridurre l’onere della prova che imponiamo alle nuove tecnologie e attribuire al potenziale dell’IA lo stesso peso che attribuiamo ai suoi rischi. Ma soprattutto occorre agilità nel saper riconoscere quando la regolamentazione è stata resa obsoleta dagli sviluppi della tecnologia e cambiarla rapidamente”.

Non possiamo non augurarci che il Digital Omnibus sia il primo passo di un percorso di cambiamento culturale prima ancora che regolamentare, accettando in un nuovo ragionevole bilanciamento tra principi diversi qualche inevitabile rischio in più derivante dall’innovazione in cambio dei tantissimi benefici che quest’ultima porta ai Paesi che la sanno sviluppare e adottare meglio. L’unica strada per allontanare lo spettro, che purtroppo si confonde sempre di più con la realtà, di un declino inevitabile del nostro continente.

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