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Il presidente israeliano, Isaac Herzog, vuole che il primo ministro Benjamin Netanyahu firmi la tregua di sessanta giorni nella guerra con Hamas che il leader americano Donald Trump mette sulla Resolute Desk dello Studio Ovale. Sarà questo progetto tattico ad attendere il capo del governo israeliano a Washington, dove in questi tre giorni ha in programma una serie intensa di incontri: prima il segretario di Stato Marco Rubio, poi il negotiator-in-Chief Steve Witkoff, poi il faccia a faccia con Trump e la successiva cena di gala; il giorno dopo ci sarà la riunione con il vicepresidente JD Vance, e quello dopo ancora con il capo del Pentagono, Pete Hegseth, e infine un grande ricevimento che la comunità ebraica statunitense ha organizzato insieme agli evangelici — constituency molto connessa al presidente e la cui visione biblica trova in Israele assoluta centralità.

Non è chiaro quanto questa agenda fitta e tutti questi incontri riescano però a persuadere Netanyahu, che ha più volte dichiarato che non accetterà mai di fermare qui la sua campagna militare anti-Hamas, perché significherebbe legittimare un’esistenza residua dell’organizzazione — che invece ha giurato di cancellare dalla faccia della terra dopo il mostruoso attacco subito il 7 ottobre 2023. Se è vero che il condizionamento statunitense ha un suo peso — perché Netanyahu sa di dover essere grato a Trump, che non ha esitato a farsi coinvolgere nelle attività militari contro l’Iran due settimane fa — è altrettanto vero che c’è un tema interno. Netanyahu è da sempre pressato sugli ostaggi: Hamas ne aveva rapiti 25 durante le ore dell’attacco del 7/10, di questi una cinquantina restano ancora nella Striscia, di cui solo una ventina sarebbero in vita.

L’accordo che Trump propone riguarda anche la restituzione di prigionieri e corpi in modo graduale. E gli israeliani lo vogliono fortemente. Hamas è ambigua: sa che gli ostaggi sono una garanzia, probabilmente senza quelli Israele non accetterebbe nessun negoziato. Non a caso, il gruppo terroristico palestinese prova a stressare la situazione intravedendo spiragli: venerdì, tre giorni fa, ha proposto tre nuovi elementi, respinti da Israele e discussi in queste ore ai tavoli negoziali di Doha. Primo, che la distribuzione degli aiuti torni all’Onu (e questo è forse il più raggiungibile, visto anche gli scandali che riguardano l’organizzazione attuale); secondo, la permanenza del cessate il fuoco anche oltre i primi sessanta giorni; infine il ritiro israeliano da tutta Gaza.

“Al di là di annunci di possibile tregua, una reale soluzione dunque non pare all’orizzonte, sebbene dopo 21 mesi di guerra non possiamo che considerare positivo questo slancio diplomatico”, osserva Giuseppe Dentice, che sin dalle prime ore dell’inizio di questa stagione di guerra commenta mensilmente con Formiche.net l’evoluzione degli eventi. C’è poca speranza che da questi eventuali primi 60 giorni di stop alle armi poi si possa costruire la fine permanente di questa stagione di combattimenti.

Per l’analista nell’Osservatorio Mediterraneo (OsMed) dell’Istituto per gli Studi Politici S. Pio V, “verosimilmente Netanyahu non accetterà una cessazione totale del conflitto, con le ali più radicali che chiedono di andare fino in fondo con la lotta a Hamas. E come già successo in precedenza, tra gennaio e marzo, si costruiranno forme di eccezione per poter continuare i combattimenti contro l’organizzazione, che portino non solo alla conquista definitiva di tutta l’enclave, ma anche al dislocamento forzoso dei gazawi fuori dalla Striscia, che è il grande obiettivo del governo israeliano”.

Dunque, c’è ancora parecchio da fare. “Dobbiamo ricordare che abbiamo un contesto regionale delicatissimo, con la guerra tra Israele e Iran soltanto congelata, e dobbiamo abituarci all’idea di successive fasi di destabilizzazione all’interno delle zone grigie, probabilmente a opera di Israele visto che attualmente l’Iran è fortemente indebolito al proprio interno nonostante la riapparizione pubblica della Guida Suprema Ali Khamenei”.

Però qualcosa si muove anche sul piano degli Accordi di Abramo? “C’è effettivamente un presunto coinvolgimento della Siria in questo possibile schema di scudo, non diciamo alleanza ancora, arabo-israeliano in funzione anti-iraniana: questo significherebbe un ulteriore indebolimento di Teheran, che tocca quell’Asse della Resistenza che permetteva alla Repubblica Islamica di avere profondità strategica”, già pesantemente intaccata dai duri colpi subiti da Hezbollah e da Hamas stessa, con soltanto gli Houthi ancora attivi e combattivi.

Anche per questo nella nottata tra domenica e lunedì Israele ha condotto una sessantina di raid aerei sullo Yemen, finalizzati a colpire centri logistici e operativi del gruppo. Peraltro, proprio domenica, gli Houthi sono tornati dopo mesi a colpire navi commerciali sul Mar Rosso. Il gruppo ha stretto un accordo pragmatico di non belligeranza con l’amministrazione Trump, ma tra le clausole resta la possibilità di colpire Israele — contro cui si dichiara in guerra in solidarietà con Hamas — ed eventuali interessi occidentali (non americani) collegati o collegabili.

Tutto si tiene. Lo slancio diplomatico spinto dall’amministrazione Trump, spiega Dentice, potrebbe essere “fragile” ed è “reattivo alle situazioni”, spesso legato alla “imprevedibilità del presidente” che porta “spunti personalistici e di breve respiro” sui dossier, più che a elementi strategici. L’incrocio con i piani interni è inoltre necessario. Per Trump, l’iniziativa da pacificatore è un altro mattoncino sulla costruzione della sua auto-candidatura al Nobel, ma anche necessario per drenare l’impaludamento mediorientale. Per i palestinesi, fermare la guerra è necessità vitale davanti a condizioni quotidiane invivibili — e per Hamas è altrettanto necessario per sopravvivere oltre la tregua. Per Israele è più complesso: la popolazione è con il primo ministro sull’eliminazione di Hamas, contro sui falliti tentativi di riportare gli ostaggi, critica sull’uso di metodi brutali — ma ci sono anche sit-in degli ultra ortodossi che chiedono a Netanyahu di procedere all’annessione della Cisgiordania. Netanyahu, imbarcandosi per gli Usa, ha detto che un accordo ci sarà se sarà come lui vuole che sia: possibile che si piegherà allo stress test trumpiano, ma solo momentaneamente?

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