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A sei mesi dalla guerra lampo di dodici giorni tra Iran e Israele, Teheran ha effettuato lunedì una nuova tornata di test missilistici balistici, riaccendendo le preoccupazioni sulla stabilità regionale e spingendo Israele a lanciare un messaggio diretto all’amministrazione di Donald Trump.

Secondo quanto riportato dall’agenzia semi-ufficiale Fars, i lanci sono stati osservati in diverse città iraniane – Teheran, Isfahan, Mashhad, Khorramabad e Mahabad – mentre l’emittente statale Nournews ha diffuso video che mostrerebbero il lancio di più vettori. Una dimostrazione di forza volutamente visibile, rivolta tanto all’esterno quanto al pubblico interno.

Da Gerusalemme, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha confermato che Israele ha seguito da vicino gli sviluppi e continuerà a seguirli. “Siamo consapevoli che l’Iran sta conducendo esercitazioni militari. Le stiamo monitorando e stiamo facendo le necessarie preparazioni”, ha dichiarato, aggiungendo un avvertimento esplicito: “Qualsiasi azione contro Israele riceverà una risposta molto dura”.

Sull’esercitazione Israele aveva puntato i riflettori internazionali, denunciando la possibilità che dalle simulazioni si potesse passare ai fatti – ossia a un nuovo attacco diretto contro il territorio dello Stato ebraico. Da qui, fonti anonime dell’intelligence occidentale avevano riflettuto sul rischio di miscalculation, ossia che per un errore di calcolo uno dei due lati (Israele o Iran) compisse azioni preventive – visto che la soglia di rischio si è drasticamente ridotta dopo i fatti che hanno seguito il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

La lezione strategica di Teheran

Secondo Nicole Grajewski, esperta di Iran presso il Carnegie Endowment for International Peace, il pensiero strategico iraniano dopo la guerra di giugno si è ormai cristallizzato attorno a una conclusione chiara: i missili rappresentano lo strumento più affidabile per imporre costi reali agli avversari.

Durante il conflitto, l’Iran ha lanciato oltre 500 missili contro Israele. Al di là dei risultati militari immediati, il fuoco missilistico ha avuto un impatto psicologico significativo, interrompendo la vita quotidiana in Israele ed esponendo i limiti strutturali dei sistemi di difesa antimissile. Un’esperienza che, secondo Grajewski, ha rafforzato a Teheran la logica della deterrence by punishment, più efficace di minacce simboliche o latenti.

Israele aveva concepito gli attacchi di giugno con l’obiettivo di infliggere danni duraturi alle infrastrutture missilistiche iraniane. Ma, sempre secondo questa lettura, a Gerusalemme cresce ora la convinzione che Teheran stia riparando i siti colpiti e, in alcuni casi, stia addirittura ampliando la propria capacità produttiva.

Il rischio di un ciclo ricorrente

È questo elemento a ridefinire le percezioni di minaccia israeliane. Funzionari di sicurezza si starebbero preparando a illustrare a Trump le opzioni per nuovi strike mirati contro il programma missilistico iraniano, nel tentativo di ristabilire una deterrenza credibile.

Il problema, però, è strutturale. Come osserva Grajewski, gli attacchi possono disrupt, ma difficilmente deny. La capacità dell’Iran di rigenerare le proprie forze missilistiche nel giro di pochi mesi rischia di intrappolare entrambe le parti in una dinamica ciclica: attacchi israeliani, seguiti da rapida ricostruzione e rinnovata deterrenza iraniana.

In questo contesto, i nuovi test missilistici non sono solo una dimostrazione tecnica. Sono un segnale politico e strategico: la partita aperta a giugno non è stata chiusa. E ogni nuova mossa rischia di avvicinare la regione a un’escalation programmata, più che accidentale.

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