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I drammatici sviluppi del conflitto in Nagorno Karabakh mi spingono a fornire un contributo di riflessione su una tragedia che più volte ho dovuto affrontare, per le sue conseguenze sulla sicurezza globale, durante il mio mandato di Presidente della Assemblea Parlamentare della Nato. È necessario un riepilogo del quadro storico e geopolitico nel quale il conflitto si inserisce. Il Nagorno Karabakh è una regione montuosa di circa 8.200 kmq di estensione, situata all’interno del territorio dell’Azerbaijan. Già in epoca sovietica essa costituiva un Oblast’ (provincia) autonoma in territorio azero, una enclave abitata da una popolazione armena.

Prima guerra

Dopo la fine dell’Unione Sovietica e con l’indipendenza dell’Azerbaijan, tra gennaio 1992 e maggio 1994 vi si combatté la prima guerra del Nagorno Karabakh. Il conflitto era stato preceduto, fin dal 1988, da scontri tra armeni e azeri, con violenze e pulizie etniche da entrambe le parti, esito di lunghissime dispute già in epoca sovietica.

Al termine del conflitto, gli armeni avevano stabilito, fin dal 1994, un governo de facto che controllava non solo l’area abitata dagli armeni stessi, ma anche ulteriori porzioni di territorio circostante, precedentemente abitate da azeri, che erano poi stati costretti a lasciare i loro insediamenti. L’estensione del territorio controllato era stata portata a oltre 11.400 kmq. Il conflitto terminò con l’accordo per il cessate il fuoco di Bishkek del 5 maggio 1994. Dal 1992 era stato istituito il Gruppo di Minsk, con lo scopo di favorire le trattative di pace.

La nuova situazione diede vita alla autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, capitale Step’anakert, con una popolazione di circa 150.000 abitanti. Da allora, fino al 2020, si susseguono periodi di tregua e momenti di ripresa delle ostilità, come nel 2016, nella cosiddetta “guerra dei quattro giorni”. Una guerra classificata tra i cosiddetti “conflitti congelati”, che preferisco definire “a intensità variabile” e che, in totale, ha causato ben oltre 30.000 morti e 80.000 feriti, oltre ad aver prodotto la fuga di 400.000 armeni dall’Azerbaijan e di 500.000 azeri dall’Armenia.

Tregue e conflitti

Un dramma, quindi, che molti scoprono solo oggi, ma che ha radici profonde nel tempo e nelle difficili relazioni tra armeni e azeri, separati da etnia, religione, tradizioni storico-culturali e interessi economici, pur vivendo in territori confinanti. Erano stati proprio i russi, fino dal XIX secolo, a sostenere le migrazioni di armeni nel territorio del Nagorno Karabakh per favorire un “bilanciamento” tra cristiani e musulmani. Tutti questi spostamenti di popoli, praticati anche da Stalin, senza processi di vera integrazione, hanno dato luogo a enclave chiuse e a conflitti e tragedie. Sul piano diplomatico, nonostante i tentativi del gruppo di Minsk, nessun reale risultato concreto e stabile è mai stato ottenuto, in quanto le diverse trattative di pace sono sempre fallite.

Il 27 settembre del 2020, scoppia la seconda guerra del Nagorno Karabakh, che, questa volta, vede la Turchia appoggiare l’Azerbaijan. Essa dura 44 giorni e provoca centinaia di vittime e di feriti (il numero non è ben chiaro, la Russia parla di oltre 4.000 vittime), oltre che molte decine di migliaia di sfollati, sia tra gli armeni che tra gli azeri. È un conflitto nel quale vengono, con ogni probabilità, commessi crimini di guerra e impiegate milizie di mercenari professionisti. Al termine del conflitto, l’Azerbaijan ottiene nuovamente il controllo dei territori che non erano in origine parte dell’Oblast’ sovietico, e, probabilmente, anche di altre porzioni. Secondo le stime, il territorio controllato dagli armeni si riduce a circa 3.000 kmq. Nella fase successiva al cessate il fuoco, ottenuto con la mediazione di Mosca, le forze di pace russe hanno il compito di garantire la sicurezza della popolazione locale e la protezione del corridoio di Lachin, che costituisce la via di comunicazione tra il Nagorno Karabakh e l’Armenia.

Dal 2022

Dal dicembre 2022, l’Azerbaijan impone una serie di blocchi del transito nel corridoio di Lachin, senza che le truppe russe intervengano, finché, a giugno, il blocco si estende anche ai convogli umanitari, sospettati di portare armi insieme alle derrate alimentari. Ciò provoca un pesante degrado delle condizioni di vita dei circa 120.000 armeni ancora presenti nel Nagorno Karabakh. Tuttavia, l’Azerbaijan, a parte le critiche della comunità internazionale, non subisce particolari conseguenze rispetto a un comportamento certamente non rispettoso dei diritti umani e dei patti sottoscritti al termine del conflitto del 2020.

Dall’11 al 20 settembre 2023 l’Armenia partecipa all’esercitazione “Eagle Partner 2023” con gli Usa. Il 19 settembre 2023 l’Azerbaijan sferra un nuovo attacco su ampia scala, anche in questo caso senza registrare interventi delle forze di peacekeeping russe. Esso conduce, nel giro di pochi giorni, alla resa delle difese della Repubblica dell’Artsakh, che consegnano le armi. Ha quindi inizio un esodo massiccio delle popolazioni locali verso l’Armenia.

Il 28 settembre, i separatisti annunciano lo scioglimento della autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Il 4 ottobre il Parlamento armeno approva l’adesione alla Corte Penale Internazionale, che aveva spiccato il mandato di cattura e arresto verso Vladimir Putin, con una decisione ritenuta ostile da Mosca. Questa la cronologia, a grandi linee. Ora i dati di fatto e i commenti, precisando da subito che nulla può giustificare gli eccessi di una guerra che porta oggi alla fuga di un popolo dalla propria terra.

Dal punto di vista del diritto internazionale, il Nagorno Karabakh appartiene all’Azerbaijan. Può non piacere, ma è così, e se ci battiamo per il riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina, non possiamo avere due pesi e due misure (double standard, sintetizzano gli americani). L’Armenia, mandando le proprie forze armate nel territorio dell’Azerbaijan, pur talora con valide motivazioni, non si è certo messa dalla parte del diritto. Dal punto di vista storico, le violenze – fino ad arrivare a veri fenomeni di pulizia etnica -, le violazioni dei confini, le barbarie, le profanazioni e le fughe di massa dalle proprie case sono avvenute da entrambe le parti, e così pure le vittime.

Artsakh

L’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh si è completamente gettata nelle braccia della Russia, al punto di essere una delle pochissime realtà non-statuali a riconoscere le province illegittimamente occupate da Mosca (Transnistria, Abkhazia, Sud Ossezia). Si è trovata così in compagnia di Stati come Venezuela, Siria o Nicaragua, cioè i pochi sodali di Putin, venendone a propria volta riconosciuta come repubblica indipendente.

La repubblica dell’Artsakh non ha mai voluto essere annessa all’Armenia, alla quale peraltro ha sempre chiesto aiuto. Erevan aveva, al contrario, proprio questo obiettivo, al punto di non avere mai riconosciuto l’indipendenza dello steso Artsakh. Anche l’Armenia ha deciso di stare nell’orbita russa, aderendo alla Csto (la Nato russa) comprando armi e chiedendo protezione a Mosca. Essa non ha neppure cercato di ridurre le tensioni storiche con i Paesi vicini, a partire dalla Turchia, preferendo sempre l’isolamento.

A chi è giovato, dunque, questo sciagurato conflitto, almeno negli ultimi quindici anni? Sicuramente a Putin, che ha avuto nelle sue mani le chiavi per accenderlo e spegnerlo a proprio piacimento, interpretando tre parti in commedia, cioè facendo affari con l’Azerbaijan, vendendo armi all’Armenia e pure facendo la figura del “garante della pace”, quando gli conveniva. Inoltre, ha tenuto costantemente questa ulteriore spina nel fianco dell’Europa e dell’Occidente, al pari delle già citate Transnistria, Abkhazia e Sud Ossezia (in Georgia) e, dal 2014, della Crimea e del Donbass. Esportare instabilità è la tattica russa da sempre.

Ucraina e Turchia

La guerra in Ucraina, che ha spostato l’attenzione di Mosca su un altro fronte, e lo schierarsi della Turchia a fianco dell’Azerbaijan, hanno cambiato in modo radicale gli equilibri sul terreno, e il drammatico esito del conflitto nelle ultime settimane ne è la dimostrazione. Pur ritenendo, personalmente, eccessivo l’uso del termine “genocidio”, l’esodo forzato delle popolazioni armene dal Nagorno Karabakh costituisce certamente un fatto di gravità estrema, non dissimile dagli esiti delle molte guerre civili che hanno insanguinato l’ultimo secolo, tra le quali quella in Siria.

Ora si apre un ruolo per la comunità internazionale che, ancora una volta ha dimostrato la propria impotenza (o scarsa attenzione?) ad intervenire in questi “conflitti regionali”, dalla valenza – ahimè – sempre più globale. Anzitutto nella ricerca di soluzioni dignitose per chi è fuggito dalle proprie case, poi nell’accertamento delle responsabilità di eventuali crimini di guerra da parte di entrambe le fazioni in lotta, infine nella definizione di confini stabili e riconosciuti. All’Armenia, che condivide molte delle responsabilità sull’accaduto in questi 30 anni, il compito di decidere una volta per tutte da che parte stare: con l’Occidente della libertà o con l’autocrazia russa?

Il primo ministro Pashinyan ha recentemente affermato che è stato un errore fidarsi troppo della Russia: un riconoscimento chiaro, ma – purtroppo – tardivo. Le recenti esercitazioni militari dell’Armenia con gli Stati Uniti, che hanno molto “indisposto” l’inquilino del Cremlino, costituiscono il primo vero tentativo di Erevan di sottrarsi una volta per tutte dall’abbraccio mortale di Mosca. Proprio questo è stato il fatto che ha provocato l’abbandono dell’Armenia da parte della Russia, con il sostanziale via libera di Mosca a Baku. L’adesione alla Corte Penale Internazionale è un ulteriore tassello di questa manovra di sganciamento dall’orbita russa da parte di Erevan.

Usa e Ue

Sullo sfondo permane una domanda, che mi sento ripetere: perché non sono intervenuti gli Usa e l’Europa? La vera questione sarebbe: l’Occidente poteva fare qualcosa? La mia risposta è amaramente realistica: nel momento nel quale Putin e Xi Jinping hanno lanciato, con la guerra in Ucraina, il guanto di sfida delle autocrazie nei confronti delle democrazie, era difficilmente ipotizzabile che Stati Uniti ed Europa potessero e volessero intervenire in qualche modo, pur con i limitati strumenti a loro disposizione. E, se neppure le Nazioni Unite hanno potuto fare qualcosa, a maggior ragione non lo avrebbero potuto fare singoli attori.

Comprendo l’indignazione di tanti, inclusi illustri rappresentanti del mondo cattolico, movimenti e realtà organizzate e, non ultime, alcune istituzioni (come il Comune di Milano e la regione Lombardia) che negli ultimi anni hanno – a mio parere in modo del tutto inopportuno – “riconosciuto” l’indipendenza dell’Artsakh. Spero, tuttavia, che questa indignazione non impedisca di guardare al di là delle apparenze di una storia che, ancora una volta, ha visto in opera forze animate unicamente dalla sete di potere, a scapito di qualsiasi forma di democrazia. Le stesse forze che stanno oggi aspettando la stanchezza dell’Occidente nel proprio sostegno all’Ucraina per assestare il colpo finale. Alla libertà di tutti.

 

Così Ucraina e Turchia hanno cambiato gli equilibri in Nagorno Karabakh. Scrive Alli

Dal punto di vista del diritto internazionale, il Nagorno Karabakh appartiene all’Azerbaijan. Può non piacere, ma è così, e se ci battiamo per il riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina, non possiamo avere due pesi e due misure (double standard, sintetizzano gli americani). L’intervento del segretario generale Fondazione De Gasperi, già presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato

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