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Dall’unificare al dividere

L’idea delle primarie era quella di federare, di unire, di portare insieme persone, anche non direttamente coinvolte nella vita del partito, e spingerle a partecipare. Era una sorta di momento politico alto in cui anche l’appassionato o interessato poteva poi co-decidere e da lì, poi, magari entrare nella vita di partito. E questo è stato vero certamente con le primarie fatte nei primi tempi. Via via, questo strumento è stato un po’ snaturato. Usato più per dividere, legittimare un capo, spaccare e creare conflitti che per mettere insieme.

Tutto questo ha indebolito la forza federatrice di questo strumento e soprattutto ne ha annichilito l’appeal. Se escludiamo le primarie di coalizione che premiarono Romano Prodi e guardiamo solo a quelle del PD, dal momento della sua fondazione, vediamo che nel 2007, quando vinse Walter Veltroni, parteciparono oltre 3,5 milioni di elettrici ed elettori, mentre nell’ultima occasione, quella in cui Matteo Renzi ri-vinse, parteciparono appena 1,8 milioni di persone. Un pezzo di elettorato perso per strada. Un po’ di serietà avrebbe suggerito, se non imposto, di chiedersi almeno “perché?”. E in effetti, qualcuno un perché se lo è dato: ma era, probabilmente, quello sbagliato.

La situazione politica attuale

Il Partito Democratico era ed è il più grande partito del centrosinistra italiano. Malgrado il pessimo risultato del 4 marzo 2018, in questi mesi ha resistito molto bene nei sondaggi, malgrado previsioni pessimistiche che lo volevano in perdita forte. In realtà, decimale più o decimale meno, siamo attorno al 18% da aprile ad oggi. Significa, secondo me, che quell’elettorato, ad oggi, non vede alternative al PD, e dunque resta al PD leale. Nelle rilevazioni periodiche quindi, chi aveva votato nel marzo 2018 per il PD, se si votasse, lo farebbe anche oggi.

Quello che preoccupa è che malgrado il fallimento conclamato di Liberi ed Uguali (LeU) e di una totale assenza di una rappresentanza partitica chiara a sinistra, il PD non cresce. In Italia, infatti, il problema è la mancanza di una forza capace di mettere insieme il mondo della sinistra. In altri paesi questo non accade.

Le forze socialdemocratiche (centrosinistra) sono affiancate spesso da forze di sinistra che hanno anche % di consenso notevoli. Per es. Die Linke in Germania oscilla tra il 9 e l’11%, La France Insoumise di Mélenchon è data al 18%, Podemos in Spagna arrivò al 20% alle elezioni del 2016 ed oggi fa parte del governo del socialista Pedro Sanchez. Casi a parte sono la Gran Bretagna e il Portogallo.

In questo scenario di frammentarietà a sinistra, va da sé che ad approfittarne sono le forze della destra. Il M5S che è un partito che definisco puramente populista, aveva sì raggiunto il 34% ma come dimostrano le tendenze recenti, ora è sceso al 26%. La Lega, invece, un partito di destra e populista, per altro ben strutturato, in perfetto stile partito solido novecentesco, cosa che è (esiste dal 1987) ha raddoppiato i consensi.

Un partito che per anni al suo interno ha delegittimato un pensiero di sinistra, oggi si trova annacquato e indebolito. Perché ha perso credibilità. Non riesce a raggiungere il cuore di un mondo, che fino a ieri ci guardava come riferimento, e che oggi, o è scivolato nell’astensione, o ha votato, per disperazione o rabbia, il M5S.

Saranno primarie che uniscono?

La domanda che si pone è quindi: riusciranno queste primarie del PD ad invertire la rotta? Saranno primarie capaci di unire o divideranno ulteriormente un fronte già spaccato? Si tratta di un problema molto serio.

In questo scenario, la proposta politica di Nicola Zingaretti, sembra essere l’unica a mirare alla ri-federazione di un campo ampio di sinistra. Zingaretti è l’unico che, avendo avanzato la propria candidatura con un ragionevole anticipo, ha lanciato iniziative locali denominate “Piazza Grande” – come sinonimo di spazio di incontro e confronto aperto – che si sono diffuse in tutt’Italia in pochi mesi coinvolgendo molti militanti, ma anche interessati; per una discussione tematica e dunque programmatica ad ampio raggio.

Per rifederare un campo ampio di sinistra in Italia, che ho detto poco fa è sprovvisto di una vera rappresetanza al momento, c’è bisogno di avere “braccia aperte”. E questo spaventa, probabilmente molti che della chiusura, fino ad oggi, hanno fatto un mantra. Noi contro loro. E per delegittimare questo buon proposito fanno ricorso al solito, stanco, espediente: Massimo D’Alema.

Leggendo delle accuse che quotidianamente vengono lanciate a Zingaretti o ai suoi collaboratori, mi è venuta alla mente un’affermazione di Anna Eleanor Roosevelt che più o meno dicava che grandi menti parlano di idee, menti mediocri parlano di fatti, menti piccole parlano di persone.

Ecco, quando la discussione non regge il confronto, si sposta la questione sulle persone: non ci si confronta sulle visioni di partito che ci sono in campo, ma sulle persone. E D’Alema è un po’ la carta giusta da usare per delegittimare un processo di apertura e inclusione. Irrispettoso, per altro, della persona di Massimo D’Alema, che si può apprezzare o meno, ma che in quanto persona merita rispetto. E non dovrebbe essere buttato in mezzo ad ogni pié sospinto. E poi è irrispettoso delle persone in generale.

Abbiamo perso 3 milioni di elettori alle ultime elezioni 2018. D’Alema non è quei 3 milioni di persone. Così come non è quelle centinaia di migliaia di militanti che dal 2013 ad oggi ci hanno abbandonato. Il PD deve tornare a parlare a quelle persone e questo non ha nulla a che vedere con D’Alema o Bersani, con Renzi o con chiunque altro.

In che modo si pensa di recuperare consenso, se si continuana demonizzare un pezzo importante di elettorato del nostro partito, anche quando ci ha detto chiaramente: cambiate, o non vi votiamo. Quando, in base ai dati IPSOS rispetto al 2013, il nostro elettorato ha deciso per il 14% di votare il M5S, il 7% LeU e ben il 22% non ha votato e via dicendo? Significa che c’è bisogno di una nuova strategia. Comunicativa, soprattutto contenutistica.

Ripartiamo da qua

Credo quindi, e questa è una considerazione personale, che tornare a parlare a quel mondo sia un passo dovuto e indispensabile. Vale per chi ha votato il M5S, LeU ma soprattutto per chi non si è sentito rappresentato da nessuno. Quel 22% di ex elettori PD che non hanno votato nessun altro, aspetta di essere riconquistato, convinto, avvicinato, incluso. Quindi, abbandoniamo le discussioni personalistiche, credo che le ragioni di una parte o dell’altra, ad oggi, siano state ben argomentate. Ho le mie idee, le mie convinzioni, le ho ampiamente esposte ad ogni occasione, qui come altrove: ora si va avanti.

Il PD deve ricostruire un legame sentimentale ed emotivo con un pezzo di elettorato demotivato, frustrato e deluso. Deve tenere le braccia aperte a quelle e ai quei militanti, elettrici ed elettori, che in questi anni ci hanno lasciato perché non si sentivano più inclusi e rappresentanti, riportarli dentro questa comunità. E questo non ha nulla a che fare con i leader delle stagioni passate e nemmeno delle stagioni presenti.

Se vogliamo tornare ad essere aperti, inclusivi, realmente plurali e soprattutto competitivi dal punto di vista elettorale, la proposta di Zingaretti è quella giusta. E malgrado i tentativi di legittimazione che arrivano da alcuni parti, si vada avanti, a braccia aperte.

Primarie del PD. Zingaretti e il campo ampio della sinistra

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