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Secondo quanto indicato da Itinerari Previdenziali nel suo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, la spesa lorda stimata per la non autosufficienza è stata nel 2023, pari a circa 34 miliardi di euro, di cui circa 21 miliardi sostenuti direttamente dalla spesa privata. Si tratta di una condizione che, nei prossimi anni, necessita di una profonda riflessione da parte del settore pubblico, ma anche da parte di quei soggetti che, a vario titolo, sono coinvolti nell’ampio, e sempre più ampio settore del welfare.

I dati Istat come indicati dal Rapporto “Laboratorio su casa, famiglia e lavoro domestico” 2024, realizzato da Censis, European Federation for Family Employment & Home Care (Effe), Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Centro Studi e Ricerche Idos, indicano infatti che la quota di italiani over65, che nel 1961 erano il 9,5%, si stima rappresenteranno il 34,5% della popolazione nel 2050.

Un percorso che, prevedendo sempre più anziani e sempre meno persone in età lavorativa, non potrà che rendere sempre più fragile il sistema pensionistico obbligatorio, richiedendo una sempre maggiore incisività dei cosiddetti fondi di pensione integrativa, anche a fronte dell’incremento costante della speranza di vita.

Questi dati, tuttavia, si limitano a definire esclusivamente il perimetro quantitativo di una condizione in cui, invece, gli elementi qualitativi possono avere un notevole impatto.

Si tratta di un elemento che molti, tra donne e uomini di questa generazione, hanno avuto modo di vivere direttamente: la cura per gli anziani, troppo spesso, deve circoscriversi alle condizioni di cura delle malattie, non essendoci una reale struttura di servizi in grado di affiancare alle componenti “mediche o medicali” anche dimensioni che invece contribuiscono in modo considerevole alla contemporanea interpretazione del concetto di salute.

La maggior parte delle riflessioni e degli interventi proposti, al riguardo, hanno un carattere prevalentemente teorico e accademico. Gli effetti positivi che la partecipazione culturale possono avere sulla vita delle persone, ed in particolare su specifici gruppi di persone, sono noti, sebbene non sia sempre realmente isolabile il fattore culturale in senso stretto da altre dimensioni quali la partecipazione, la socializzazione, il fattore ambientale, e via discorrendo.

È però noto che le persone che partecipano ad attività culturali traggono beneficio da tale condizione. Così come è noto che la stimolazione cognitiva ed emotiva delle persone è un fattore cruciale per la qualità della loro vita.

Talvolta, su questo tema, si pone in luce l’importanza di stimolare tali azioni come elementi di prevenzione. Un elemento che richiede sicuramente una grande attenzione e che fonda su argomentazioni molto solide, ma che tuttavia può risultare di difficile applicazione quando si intende sviluppare, nel nostro Paese, un insieme di attività, ascrivibili alla spesa sanitaria, che incentivino il consumo di cultura tra persone non ospedalizzate o comunque non ospiti (in modalità residenziale o semiresidenziale) in centri specializzati per la cura.

Attribuire questo tipo di attività esclusivamente al settore pubblico ha senza dubbio senso: se ci sono degli elementi che lasciano ipotizzare che una maggiore spesa pubblica culturale volta a stimolare la partecipazione attiva da parte delle persone a rischio possa comportare una più che proporzionale riduzione dei costi di ospedalizzazione, tenendo conto dei costi sociali e di tutte le altre dimensioni coinvolte, ha sicuramente senso. Tali spese, tuttavia, andrebbero senza dubbio a ridurre altre categorie di spesa, che la condizione attuale del nostro sistema sanitario impone essere prioritarie.

Come per moltissime altre dimensioni della nostra esistenza, tuttavia, a fronte dell’importanza di tali servizi, la carenza di offerta da parte del settore pubblico può essere integrata da un’offerta di natura privata, sia essa imprenditoriale (come accade con moltissimi dei servizi di cura e di assistenza sanitaria) sia essa espressione del terzo settore.

Anche in questo caso, tuttavia, a fronte delle condizioni odierne, che non accennano ad uno strutturale miglioramento nei prossimi decenni, risultano davvero difficile immaginare che la maggior parte dei cittadini, mensilmente, oltre a sostenere il costo di badanti e di spese sanitarie sostengano anche il costo di un’animazione culturale a domicilio.

Così come l’insieme delle esigenze di cura è già così eterogeneo da rendere poco efficiente lo sviluppo di soluzioni di questo tipo. Immaginando un’organizzazione di volontari per persone anziane non autosufficienti, ad esempio, sarà sicuramente molto richiesta la possibilità di accompagnare la persona ad una visita di controllo, piuttosto che dedicare lo stesso tempo alla lettura a voce alta e agli esercizi di stimolazione cognitiva, all’ascolto attivo e guidato di musica.

Stimolazioni che nella nostra quotidianità risultano senza dubbio essenziali per tantissimi cittadini, ma che vengono ad essere dismessi nel momento in cui è necessario scegliere tra azioni di cura in senso stretto, e azioni di “qualità della vita”.

Sicuramente la formazione di professionisti ibridi può risultare essere una soluzione. Percorso tuttavia percorribile in caso di personale qualificato, cui associare, tra le proprie specializzazioni, anche questo tipo di attività. È tuttavia noto che, allo stato attuale, molti professionisti della cura domiciliari operano all’interno di un’economia informale, condizione che non mette, ad esempio, i familiari nelle condizioni di poter selezionare i servizi all’interno di uno specifico “catalogo”.

Una cooperazione attiva tra legislatore fiscale e gestori di fondi pensione, in questo senso, potrebbe tuttavia aprire dei potenziali spiragli di azione.

Si pensi ad esempio ai consumi culturali durante la propria esistenza: un volume di denaro piuttosto importante, che incide a seconda delle proprie abitudini d’acquisto e di fruizione in modo talvolta anche significativo all’interno dei consumi abituali. È infatti noto che malgrado in Italia le persone che consumano e che partecipano attivamente alla cultura rappresentino tendenzialmente una minoranza, è altresì vero che tale minoranza tende a presentare, a parità di condizioni, dei consumi crescenti. In altri termini, chi legge, tende a leggere sempre più. Chi va ai musei, idem.

Immaginare una completa deducibilità di queste spese può risultare troppo oneroso per le risorse del Paese, che già si trova a dover affrontare decenni di tendenziale timidezza sul lato della crescita economica.

Immaginare che, tuttavia, l’acquisto privato di beni e servizi culturali possa generare, in termini di gettito, una parziale deducibilità, e che l’importo di tale somma dedotta vada ad essere affidato ad uno strumento previdenziale integrativo specifico, potrebbe essere una strada realmente percorribile.

Certo non immediata, né priva di insidie, ma sostanzialmente credibile. La parziale deducibilità consentirebbe, in altri termini, di godere a partire dal godimento della pensione integrativa, di beni o servizi culturali in proporzione alle proprie abitudini di consumo, tenendo conto dei possibili incrementi derivanti dalla gestione attiva di tali somme di denaro. La deducibilità (minore gettito fiscale nei riguardi dell’Erario), pur presentando un costo per la collettività, andrebbe tuttavia ad essere reimmesso nell’economia non già al momento del godimento effettivo, ma anche in termini di potenziale maggiore occupazione legata al settore.

Piccolissimi accorgimenti, che di certo non rivoluzionerebbero il nostro sistema previdenziale, ma che per quelle persone che ritengono il consumo culturale un elemento importante per la propria esistenza, risulterebbero sicuramente ottimali.

Effetti che potrebbero stimolare ulteriormente il consumo culturale da parte dei privati (oggi), e che, inoltre, permetterebbero tendenzialmente di estendere l’apertura di posizioni “integrative” già prima dell’avvio dell’età lavorativa.

Sicuramente quest’ultima opzione risulta di ancor più difficile attuazione, ma con l’incremento della speranza di vita e con un’età sempre più avanzata di ingresso nel mondo del lavoro, risulta sempre più arduo “spostare in avanti” l’età pensionabile. E se spostare in avanti è un’operazione troppo ardua, forse, anticipare l’età contributiva (o para-contributiva), può essere in ogni caso un’idea su cui riflettere.

Un welfare che punti sulla cultura, al di là della mera sopravvivenza

Nel 2023, la spesa per la non autosufficienza in Italia è stata di circa 34 miliardi di euro, con 21 miliardi coperti da spesa privata. Entro il 2050, gli over 65 rappresenteranno il 34,5% della popolazione, rendendo fragile il sistema pensionistico. È necessaria una maggiore partecipazione culturale per migliorare la qualità della vita degli anziani e ridurre i costi sanitari. L’intervento di Stefano Monti

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