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Benny Gantz, l’ex capo dell’esercito israeliano diventato politico centrista circa cinque anni fa, sembra pronto a lasciare il governo israeliano a cui aveva aderito — sotto la responsabilità nazionale — dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre. Gantz, che è stato sottoposto a un’enorme pressione da parte di coloro che si oppongono alla leadership di Benjamin Netanyahu per dimettersi dal governo, potrebbe farlo già domani, sabato 8 giugno, se il premier non avesse elaborato un piano per la governance del day-after della Striscia di Gaza.

Sono passati otto mesi dal massacro di Hamas che ha aperto le ostilità con Israele, c’è un barlume di speranza per arrivare a un de-conflicting, ma ci sono anche diversi segnali che gli spazi di mediazione sono stretti. E la mossa di Gantz ne è testimonianza — sebbene non impedirà a Netanyahu di governare. Ciò che fa sperare per una fine dei combattimenti è il livello di impegno politico e diplomatico messo in campo dagli Stati Uniti, che hanno reso pubblico il “Piano Biden”, dunque coinvolto il presidente nella presentazione di un percorso di stabilizzazione annunciato addirittura con un discorso dalla Casa Bianca. Alti funzionari dell’amministrazione (come il capo della CIA e l’inviato speciale per il Medio Oriente) hanno subito dopo partecipato a incontri e riunioni, a Doha e al Cairo, per spingere verso l’accettazione della proposta statunitense.

Dei risultati negoziali ancora si sa molto poco, ma intanto si registra il rinfocolarsi della crisi al confine settentrionale, dove gli scontri tra forze israeliane e i guerriglieri sciiti di Hezbollah sono su livelli massimi di questi mesi. Una lettura (condivisa da più parti ma non certo pubblicamente supportabile) dice che la possibilità di riaprire un fronte contro Hezbollah darebbe a Netanyahu l’occasione per restare al potere pur negoziando sulla Striscia, perché Israele sarebbe coinvolto in un’altra guerra da dare in pasto alle narrazioni più radicali.

“Oltre all’attualità, questi mesi di conflitto hanno delineato alcuni punti chiari: un peggioramento generale dello scenario politico e militare, che rende difficile immaginare cosa accadrà dopo per Gaza; un aumento della tensione in Cisgiordania e lungo il confine con il Libano; la mediazione diplomatica compromessa dai sabotaggi reciproci di Israele e Hamas. Questa condizione è aggravata dall’atteggiamento aggressivo e speculativo di Hamas e del governo di destra israeliano, che si sono dimostrati funzionali l’uno all’altro”, commenta Giuseppe Dentice, responsabile del Mena Desk del CeSI, con cui Formiche.net analizza l’evoluzione del conflitto sin dal 7 ottobre.

Per Netanyahu, accettare il Piano Biden potrebbe significare la caduta del governo e la fine della sua terrificante carriera politica, che lo vede al potere da un ventennio. I partiti più estremisti che compongono la maggioranza hanno già annunciato che qualsiasi accordo con Hamas significherà la perdita della loro fiducia, e questo è un fattore determinante per la ricerca di stabilità. “Sul piano nazionale, la guerra non ha fatto che allargare fratturazioni già esistenti, come visibile dalle grandi proteste contro l’esecutivo e le sempre più forti tensioni tra laici e nazional-religiosi”, spiega Dentice, secondo cui c’è il rischio di muoversi verso uno scenario destabilizzato di tensione civile, aggravando le divisioni tra i laici, che richiamano il rispetto dello Stato di diritto, e un tessuto di soggetti nazional-religiosi, sempre più radicalizzati, che usano la fede in chiave identitaria, esclusiva e talvolta razzista.

Per Dentice, il rischio dell’aggravarsi di queste tensioni interne potrebbe ripercuotersi sui rapporti esterni di Israele — già in parte compromessi dalla guerra, non tanto perché sia mai stato largamente messo in discussione il diritto di autodifesa dopo l’aggressione subita da Hamas, ma è la misura e gli effetti sui civili palestinesi a essere stata pesantemente criticata a livello internazionale. Visto il peso diplomatico messo sul dossier, la mancanza di un’intesa sul Piano Biden legata alle tensioni interne porterebbe a un “pericoloso aumento della distanza tra Tel Aviv e Washington, con implicazioni dirette nella campagna presidenziale per le elezioni di novembre 2024. Non è un segreto che il governo Netanyahu stia spingendo per un possibile ritorno di Donald Trump, convinto che questi sostenga tutte le posizioni israeliane riguardo alla Palestina e all’Iran, magari con un sostegno diretto dalla Casa Bianca”, analizza Dentice.

Ma in generale diventerebbe complicato per qualsiasi attore, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa o in Italia, sostenere Israele, soprattutto farlo senza considerare la crescente contestazione proveniente dal Global South contro i doppi standard occidentali riguardo a Gaza e all’Ucraina — un elemento messo in chiaro dal presidente di Timor Est durante l’incontro con l’omologo Volodymyr Zelensky allo Shangri-La Dialogue di Singapore, per esempio. “Un percorso simile potrebbe portare Israele verso un isolamento internazionale. Un’approccio così estremo da parte di Tel Aviv potrebbe avere anche conseguenze geopolitiche e strategiche, intrappolando il Paese e ostacolando progressi su dinamiche internazionali come la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita o progetti geo-economici con New Delhi sull’India-Middle East-Europe Corridor (Imec)”, aggiunge Dentice.

Questo potrebbe anche peggiorare la reputazione internazionale di Israele davanti alle accuse di genocidio mosse dal Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia (a cui si è unita in questi giorni la Spagna, primo europeo), la richiesta di mandati di arresto contro Netanyahu e il ministro Yoav Gallant dalla Corte Penale Internazionale, e il riconoscimento di uno Stato di Palestina da parte di alcuni Paesi europei, mettono in luce questo isolamento di Israele sulla scena internazionale. “Se Tel Aviv continua a opporsi al de-conflicting, opporsi ferocemente alla soluzione a due Stati e rifiuta qualsiasi critica dalle istituzioni giuridiche internazionali, rischia di essere percepito come un paria tra le democrazie mondiali”, aggiunge Dentice.

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