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Visto come sta andando il mondo intorno a noi dobbiamo essere, a maggior ragione, europeisti convinti. Tanto convinti da volerla cambiare questa Europa, migliorare, ricostruire. Non conservarla così com’è, che non va. Ancor meno – come fanno i sovranisti – smontarla, distruggerla.

La discriminante, dunque, è tra chi vuole una nuova Europa e chi pensa che se ne possa fare a meno. È questa la posta in gioco alle prossime elezioni europee di maggio (ne parleremo il prossimo 23 ottobre in un convegno organizzato da ReS – Riformismo e solidarietà, al quale interviene Paolo Gentiloni).

L’Europa, in questi anni, non ha dato buona prova di sé. La gestione della crisi ha accumulato domande alle quali non si è data risposta: lavoro, sicurezza, futuro… La causa non sta nell’eccesso di Europa; bensì, al contrario, nella carenza di Europa; nell’assenza di un disegno politico e di una vera governance continentale che superino le pure logiche nazionali. Non è vero, infatti, che gli interessi nazionali si difendono meglio se l’Europa è debole e non interferisce sulle vicende economiche e sociali dei singoli Stati. Ciò è clamorosamente palese nel caso dell’immigrazione, dove proprio la coalizione di Stati sovranisti impedisce la realizzazione di un vero piano europeo di gestione dei flussi, accompagnato da un programma di aiuti allo sviluppo dei Paesi di origine (il fallimento del vertice di Bratislava di qualche anno fa pesa ancora sulla vicenda migranti). Ma basta guardare anche al lavoro: il rifiuto ad assumere la proposta italiana di un’assicurazione europea per governare i picchi di disoccupazione ha danneggiato più noi che altri. Quel rifiuto, però, non è venuto dai “burocrati” europei, ma dagli Stati nordici e dalla Germania. Certo non mancano le responsabilità dirette di Bruxelles. Due soli esempi: la confusa gestione della Bolkestein e la certificazione dei prodotti locali (il caso del Parmesan su tutti). Ma è proprio la carenza di una vera dimensione europea che produce questi cortocircuiti.

Il punto è che non esistono vie di mezzo. In questo i sovranisti, con i loro forsennati attacchi, ci aiutano a capire chiaramente la situazione. O si va avanti o si va indietro. L’idea di limitarsi a difendere questa Europa, con la tesi che questo clima “anti” passerà, è perdente. Se si vuole evitare che l’Europa si sfaldi, bisogna rilanciarla.

Innanzitutto, con un progetto strategico, che rimetta in moto l’entusiasmo di una prospettiva: gli Stati Uniti d’Europa. Una prospettiva affascinante, ma meno utopistica di quanto appaia. Infatti, “Stati Uniti” vuol dire che gli Stati nazionali esistono e concorrono a una “Federazione” con poteri certamente maggiori di oggi, che gli Stati devono definitivamente delegare alla dimensione sovranazionale, ma anche senza annullare le specificità nazionali, vissute come una ricchezza.

Battaglia totalmente controcorrente? Non credo. Se è vero che il 60% degli italiani appoggia le politiche del governo gialloverde, il 65%, secondo i dati di Eurobarometro diffusi oggi, è favorevole all’euro. E pur nella crisi di consensi, che gli stessi dati evidenziano, a fronte di un modesto 44% di italiani che è favorevole a restare nell’Unione Europea, l’alta percentuale di incerti (32%), attesta i contrari al 24%. Non c’è da gioire, ma la partita è ancora tutta aperta.

Lo sola prospettiva possibile per un progetto così ambizioso è che gli Stati Uniti d’Europa affermino un modello economico e sociale inclusivo, che combatte le disuguaglianze e compete nella globalizzazione in qualità. È sempre stata questa la forza europea: proporsi come un modello alternativo a quello liberista e fare dell’economia sociale di mercato e del welfare la condizione di governo dei conflitti e degli interessi. Più recentemente ha, anche, preso corpo una diffusa coscienza ambientale (gli ultimi risultati in Baviera ce lo confermano). Una prospettiva, dunque, che assume la crescita sostenibile e l’uguaglianza sociale come complementari e non alternativi nella ricerca di un nuovo modello di sviluppo.

Certo al collasso evidente del liberismo si affianca il fiato corto della socialdemocrazia. La crisi economica e la globalizzazione ci hanno messo di fronte alla scarsità delle risorse, ma anche a un’accresciuta domanda di benessere e a un’ immensa disponibilità di risorse tecnologiche. Una nuova idea di progresso, più radicale nei valori e nei principi, più riformista nei programmi è ciò che dobbiamo offrire al disorientamento generale che attraversa i popoli tentati, in questo momento, dal rifugiarsi nel fortino del nazionalismo e dell’individualismo.

Per riuscirci serve una spinta di popolo. Non credo che un singolo partito possa assolvere a questo compito. Ecco perché già dalla prossima campagna elettorale bisogna mostrare la novità: una lista unitaria degli europeisti che, adottati i valori e le politiche sopraccennate, metta insieme tutti coloro che, anche da differenti punti di vista, vogliono un’altra Europa. Convintamente. Si sente dire: da Tsipras a Macron. Sì, è la strada. Sarà tortuosa, ambigua anche, ma se la posta in gioco è quella che sappiamo, dobbiamo essere generosi e lungimiranti. La guerra di liberazione dalla tirannia nazifascista fu vinta anche perché gli antifascisti seppero unirsi in nome di una causa comune. Se, successivamente, quando le stesse forze entrarono in una dura competizione tra loro, la democrazia resse alla prova del voto, fu anche perché ci fu, prima, quella prova di collaborazione unitaria.

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