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Alle 18 si riunirà il Consiglio dei ministri per mettere la firma sulla manovra. Ma non è detto che questo avvenga. Le posizioni tra 5 stelle e Lega sono ancora lontane. Riguardano soprattutto il decreto fiscale e la proposta di condono, seppure etichettato come semplice “pace fiscale”. La differenza non è solo nominalistica. Una sistemazione delle liti pendenti con il fisco ha senso nell’ambito di una riforma complessiva del sistema impositivo. In questo caso è logico chiudere con il passato, sgravare gli Uffici dal peso dei carichi pendenti, per destinare energie ed intelligenza amministrativa al rodaggio di un nuovo sistema. Ma quando la montagna, come in questo caso, partorisce un topolino, dopo i grandi propositi elettorali – leggi flat tax – allora il beneficio concesso ai contribuenti non in regola diventa un’altra cosa.

Si rientra nella lunga tradizione italiana, con misure che premiano i furbi e penalizzano gli onesti. Che poi tra i furbi vi siano anche coloro che piuttosto che licenziare i propri dipendenti, non hanno assolto ai loro doveri fiscali, è solo un titolo che va a loro merito. Ma in questo caso vi dovrebbero essere misure molto più selettive. Soprattutto l’idea di riconoscere a questi piccoli eroi una sorta di onorificenza. E non pensare di fare (poca) cassa, con una misura così generalizzata. Contraddizione oggettiva: che spiega uno dei tanti contrasti sulle cifre. Con la Lega che vorrebbe un tetto, seppure variamente distribuito nel tempo, pari ad 1 milione ed i 5 stelle, memori del loro grido di battaglia (o-ne-stà), che vorrebbero ridurlo a 100 mila euro. Ci sarà, alla fine, l’inevitabile compromesso? Probabile, ma la prova è ardua e complicata.

Tutto nasce dal fatto che, a distanza di settimane, i conti non tornano. All’appello mancherebbero circa 2 miliardi che sarebbe facile trovare se si limitassero le spese. Se, ad esempio, invece di ipotizzare una spesa di 10 miliardi per il salario di cittadinanza, si prevedesse, con maggior realismo, un piccolo taglio. Con maggior realismo: alla fine dell’anno potremmo, infatti, tirare le somme. Si vedrà allora che se veramente il salario di cittadinanza non vuole essere solo una misura assistenziale, come ripete lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, gran parte di quelle somme non saranno spese.

La struttura amministrativa che dovrebbe gestire il nuovo istituto, basata su centri per l’impiego (di competenza regionale) del tutto inadeguati e controlli basati sulla rete – la app di cui si parla – non si mette in piedi nello spazio di qualche mese. Al tempo stesso la cifra ipotizzata non è sufficiente per garantire un qual si voglia automatismo. Avremo, quindi, una distribuzione a pioggia, con benefici assicurati solo ad alcuni. Destinata ad alimentare un grande mercato delle vacche. Con pochi figli e tanti figliastri.

Nel disperato tentativo di non venire meno alle promesse date e quindi continuare a sventolare i 10 miliardi come il grande bandierone del cambiamento, Luigi Di Maio ha tentato il colpo gobbo. Porre a carico dei pensionati italiani, possessori di una rendita superiore ai 3.500 euro, almeno la metà dei soldi che mancano. Anche a costo di non rispettare, per primo, le tavole della legge: vale a dire il contratto per il cambiamento. In quell’accordo, il tetto previsto era di 5 mila euro e l’eventuale taglio ipotizzato solo sulla differenza tra l’ammontare dei contributi effettivamente versati e l’importo di una pensione ottenuta nel rispetto delle vecchie regole. Una sorta di missione impossibile, come lo stesso Tito Boeri, Presidente dell’Inps, aveva cercato di suggerire. Mancanza di dati attendibili, migliaia di ricorsi destinati a finire davanti la Corte costituzionale, dopo aver intasato i tribunali. Ma soprattutto poco grasso: non più di 150 milioni: del tutto insufficienti per coprire le esigenze politiche del Vice presidente.

Ed ecco allora la furbata. Abbassiamo il tetto e standardizziamo il taglio: 20 per cento e non se ne parli più. Nel gergo militare questo equivale alla decimazione. Quando si vuole dare un esempio, si scelgono a caso un certo numero di vittime sacrificali e quindi si procede. Nel caso dei pensionati italiani, usati come bancomat, il caso è ancora più clamoroso. Secondo i dati disponibili (anno d’imposta 2016) i contribuenti che denunciano un reddito superiore a 75 mila euro sono pari al 2,2 per cento, in assoluta prevalenza (oltre l’80 per cento) lavoratori dipendenti e pensionati (d’oro). Dalle loro tasche deriva il 14,1 per cento del gettito complessivo, relativo all’Irpef. Saranno quindi anche tanti paperoni, ma il contributo alle pubbliche finanze non è marginale. Soprattutto la maggior parte di loro vive nel Nord del Paese. Si spiegano pertanto le perplessità della Lega. Vedremo se produrranno effetto.

Immaginiamo tuttavia che, nello stesso provvedimento, siano, alla fine, contenute le norme sul “condono – pace fiscale” a vantaggio di chi, seppure per nobili motivi, ha evaso il fisco, e quelle relative al supplemento di imposta – seppure nella forma del taglio indiscriminato – nei confronti di coloro che le imposte le hanno sempre pagate. Ed in modo esorbitante. Il minimo che si può dire è che sarebbe una proposta indecente. Specie se inserita in un decreto legge, che, per fortuna, richiede il vaglio preventivo del Presidente della Repubblica nei suoi profili di costituzionalità. Ma se anche dovesse prevalere non la “ragion di stato”, ma le più banali esigenze politiche, non si dimentichi il convitato di pietra. Quella Commissione europea, alla cui valutazione l’intera manovra dovrà essere sottoposta.

Già vi sono ragioni sufficienti per ritenere, da quel punto di vista, che un deficit al 2,4 per cento, non supportato da dirette ed inequivocabili opzioni per lo sviluppo, sia ingiustificato. Ma se il merito della manovra si presenta con le contraddizioni che abbiamo notato, sarà veramente difficile a Giuseppe Conte, vincere la sua causa di fronte alla Commissione. Ha detto che la manovra non è solo un insieme di numeri, ma progetti e programmi d’intervento, da illustrare nelle sedi più opportune per farne comprendere il senso più profondo. Sennonché se tanto mi dà tanto, è forse meglio che “l’avvocato del popolo” imposti diversamente la sua difesa. Per non rischiare oltre ad un verdetto negativo anche le aggravanti.

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