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Se chiedessimo ad ognuno nell’universo mondo delle nostre relazioni quotidiane di alzare la mano se abbia notizia di almeno un giovane iscritto ad Università di “fuori terra” o che, da laureato, sia andato a “cercare fortuna” all’estero, ci troveremmo sicuramente di fronte ad una selva di braccia levate. È, infatti, un’esperienza comune a moltissime famiglie italiane quella di perdere pezzi pregiati di giovani generazioni, investendo risorse in quella nuova specie di ascensore sociale che è la fuga all’estero. Beninteso: si tratta di un fenomeno che è anche il portato di una nuova e positiva mobilità dei nostri ragazzi all’interno di un mondo ristretto dalla modernità e dalla comunicazione globale. Ma, al netto di questo connotato positivo, peraltro comune alle giovani generazioni di tutti i Paesi occidentali, resta un dato che così positivo non è e non sembra toccato nel dibattito pubblico,che pure appare sempre iper-sensibilizzato rispetto ai fenomeni migratori.

Il dato è che ormai da alcuni anni il saldo tra immigrati ed emigrati nel territorio nazionale è negativo. Nello scorso anno gli ingressi degli stranieri (sbarchi e arrivi via terra) sono stati 52mila. Si pensi che, invece, solo gli emigrati italiani con destinazione Germania, Inghilterra e Spagna sono stati quasi 170mila. Secondo l’Istat ammonta a 509mila il numero degli italiani che si sono stabiliti all’estero nel periodo 2007/2015, gli otto anni della peggiore crisi occupazionale. La metà di quel mezzo milione è in età tra i 15 e i 39 anni. Si tratta di giovani alfabetizzati e in maggioranza dotati di titolo di studio universitario. Secondo il Centro Studi di Confindustria questa emorragia migratoria ci è costata in quel periodo di tempo non meno di 43 miliardi di euro, mettendo nel conto la spesa delle famiglie per il sostegno agli studi fino alla laurea, stimata non meno di 165mila euro per ogni ragazzo che raggiunge i 25 anni di età, e la spesa sostenuta dallo Stato per il funzionamento delle strutture universitarie. Peraltro, nonostante la cospicua autoflagellazione che siamo abituati a farci sulla qualità dei nostri atenei, pare proprio che la qualità dell’insegnamento impartita nelle università italiane non sia poi così male, se poi i nostri giovani trovano buoni approdi lavorativi (anche negli istituti di alta cultura) nei Paesi di destinazione.

Accade, così, che la “meglio gioventù” se ne vada all’estero e lì rimanga, depauperando l’Italia e lasciando il campo alla parte di gioventù che non ha la forza di strappare, perché priva delle necessarie risorse per farlo oppure perché rassegnata, o vinta dall’abulia nichilista del tempo. Un ottimo terreno di coltura per l’antagonismo populista che primeggia oggi in politica. Il nostro saldo migratorio, alla fine, non è solo un meno dal punto di vista della numerosità delle presenze, ma anche e soprattutto una sottrazione di qualità, di intelligenza, di futuro.

Naturalmente il catalogo delle responsabilità di tutto questo è gonfio e non fa esente nessuno dei responsabili politici del tempo passato. Ciò che inquieta, però, è la totale rimozione oggi del problema: esercitando l’ipnotismo del “non passa lo straniero”, con l’ostensione del cipiglio corrugato di fronte all’Europa, si ruba la meglio gioventù all’Italia.

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