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“Le sanzioni contro la Russia sono inutili e dannose. Siamo pronti a passare dalle parole ai fatti”. Così dalla Libia il ministro dell’Interno Matteo Salvini, in un’intervista alla tv russa Rossija 24 ripresa dall’agenzia Tass, ha promesso che il governo manterrà il punto sulle restrizioni economiche contro Mosca. Salvo allentare la presa subito dopo quando, quasi a giustificare il voto italiano favorevole alle sanzioni europee in seno al Consiglio Ue, il vicepremier ha puntato il dito contro Bruxelles: “In Europa siamo gli unici a pensarlo, siamo soli contro il mondo intero”. Per poi chiarire di non voler “togliere il lavoro” al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che dovrà scegliere se porre il veto al rinnovo delle sanzioni al Consiglio Europeo di fine mese. Insomma, per il momento sembra proprio che non si passerà dalle parole ai fatti. Le dichiarazioni di Salvini a​gli osservatori internazionali sono suonate non come un dietrofront ma certamente come una svolta all’insegna della maggiore prudenza.

Tutta la compagine di governo leghista è compatta sul no alle sanzioni, un punto che il Carroccio ha ritenuto tanto dirimente da averlo inserito nero su bianco nel contratto per il governo gialloverde. In campagna elettorale Salvini ha indossato una corazza impermeabile. Ora che è messo di fronte alla responsabilità di governo si mostra più flessibile, consapevole che c’è più di un ostacolo sul percorso. In una recente intervista a Formiche.net lo stesso Guglielmo Picchi, sottosegretario agli Affari Esteri e già consigliere per la politica estera di Salvini, aveva ammesso le difficoltà di mantenere la barra dritta, riconoscendo che la Lega sta ancora consolidando la sua posizione “sia in termini di coalizione di governo che nei confronti degli altri Paesi europei”. “Il rinnovo delle sanzioni arriverà a più round” aveva aggiunto Picchi ai nostri microfoni, “possiamo perdere il primo e poi vincere il secondo il 15 luglio”.

Non è facile trovare convergenze ampie in un consesso come quello europeo. Porre il veto, facendo così saltare il tavolo, è un gesto di grave portata politica, una chiara presa di posizione che non può rimanere senza conseguenze. Né è semplice spiegare all’opinione pubblica, già di per sé poco appassionata alla politica internazionale, il “danno” che le sanzioni contro Mosca causerebbero alle imprese italiane. Un classico cavallo di battaglia dei fautori del no è l’impatto che le misure hanno sulle regioni del nord. Numeri alla mano però i danni vanno ridimensionati. I dati Eurostat, per fare un esempio, ci spiegano che le sanzioni europee nel 2017 hanno toccato solo il 2% dell’export lombardo, il 2,4% di quello emiliano e il 2,2% di quello veneto.

Un no preventivo alle sanzioni ha pesanti implicazioni politiche, e un contraccolpo economico minimo sul mondo imprenditoriale italiano. È una realtà con cui stanno facendo i conti tutti al governo, compresi gli hardliners. Consumare uno strappo sarebbe una mossa azzardata. Lo ha spiegato con estrema chiarezza questa mattina l’ambasciata americana a Roma, che ha rotto gli indugi su twitter ponendosi tre domande. Uno: “Sono cambiate le ragioni alla base delle sanzioni economiche?”. Due: “La Russia ha restituito la Crimea all’Ucraina?”. E infine tre: “La Russia ha cessato di sostenere i separatisti che combattono in Est Ucraina?”. La risposta è semplice: “No. Per questo motivo l’unica opzione è mantenere in vigore le sanzioni alla Russia e sostenere le leggi internazionali”.

Duro fuori, più morbido dentro. Sulle sanzioni alla Russia Salvini si fa prudente (gli Usa insistono)

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