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I concetti esposti da Matteo Salvini nella conferenza stampa successiva al primo viaggio in Libia si prestano a una doppia valutazione che schematicamente possiamo semplificare in un “perché sì” e “perché no”.

LIBIA – PERCHÉ SÌ

Il primo viaggio a Tripoli era atteso ed è stato indispensabile per confrontarsi con il governo riconosciuto dall’Onu e per confermare la collaborazione italiana in tutti i settori con presenze di primo livello del Viminale e dell’Aise, oltre a quella dell’ambasciatore Giuseppe Perrone. I primi aiuti materiali dovrebbero essere le 20 imbarcazioni che il ministro intende consegnare alla Guardia costiera libica entro l’estate.

LIBIA – PERCHÉ NO

Quello che non ha convinto è l’“equidistanza” che il governo italiano intende praticare rispetto al generale Khalifa Haftar e soprattutto ai sindaci molti dei quali esponenti delle tribù che dominano la Libia meridionale. La spiegazione sta nel voler privilegiare il governo riconosciuto dall’Onu, ma nelle immense aree del Sud, che tutti dovrebbero considerare le frontiere meridionali dell’Europa, quei sindaci contano molto più delle Nazioni Unite. L’anno scorso 12 di loro firmarono un accordo con l’allora ministro Marco Minniti e inviarono un elenco di progetti: scuole, strade, ospedali, pozzi per l’acqua. Il loro ruolo nel fermare o rallentare i traffici è fondamentale e metterli in secondo piano può essere rischioso.

SOCCORSI E ONG – PERCHÉ SÌ

Il pugno di ferro contro le navi delle ong è giustificato da atteggiamenti e politiche nel mirino già dall’anno scorso quando Minniti impose un codice di condotta che non tutte le organizzazioni hanno firmato. La nave Lifeline, disconosciuta anche dall’Olanda di cui batte bandiera e ora diretta a Malta, non sarebbe entrata nei porti italiani neanche con Minniti perché non ha firmato il codice e comunque lo avrebbe violato avendo impedito alla Guardia costiera libica di recuperare i migranti che ha ora a bordo. Su questo tema si dimentica spesso il parere dei tecnici. Qualche giorno fa, nel forum sull’immigrazione organizzato dal comando marittimo della Nato e da quello della missione Eunavfor Med (Sophia), il prefetto Massimo Bontempi, direttore centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere del Viminale, disse che la presenza delle navi delle ong nei pressi della Libia rappresenta un forte pull factor, un fattore di attrazione, per l’immigrazione e l’ammiraglio Enrico Credendino aggiunse che bisogna “attenersi alle regole. Qualunque imbarcazione, non solo quelle delle ong, che pattuglia le acque nei pressi della Libia incentiva i flussi migratori”. Pattugliare non significa passare lì per caso, bensì aspettare qualcuno.

SOCCORSI E ONG – PERCHÉ NO

Replicando a una domanda insidiosa, Salvini nella conferenza stampa non ha saputo rinunciare alla provocazione auspicando che la Guardia costiera italiana non risponda agli sos. Il ministro dell’Interno di un Paese democratico non può avere una posizione insostenibile per motivi giuridici, umanitari, politici e infatti il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Danilo Toninelli, lo ha smentito: la Guardia costiera “opera in autonomia tecnico-giuridica”, se la richiesta arriva da aree di competenza altrui (come Libia o Malta) risponde di rivolgersi ad altri, ma naturalmente “se non ci sono altre autorità responsabili continuerà a intervenire”. È ovvio e Salvini si è affrettato a spiegare di “essere sempre d’accordo con Toninelli”. Bisogna evitare che la Guardia costiera diventi un vaso di coccio tra vasi di ferro: il suo compito va oltre le scelte e le beghe politiche. E a tale proposito, un conto sono le ong e un altro le imbarcazioni che legittimamente, coordinate dalla Guardia costiera italiana, salvano migranti e che hanno diritto a sbarcare in Italia: non è stato normale aspettare quattro giorni prima di consentire lo sbarco a Pozzallo al cargo danese Maersk.

HOTSPOT – PERCHÈ SÌ

L’idea di creare centri nei quali distinguere chi ha diritto alla protezione internazionale da chi deve tornare indietro è sul tavolo da anni. Salvini li propone nelle aree al di fuori delle frontiere meridionali libiche, quindi in Niger, Ciad, Mali, Sudan. Il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Minniti e dal 1° luglio prossimo direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, ha ricordato a Radio anch’io che se ne discuteva fin da quando al Viminale c’era Angelino Alfano: i tentativi con Egitto e Turchia fallirono per il rifiuto di quei governi soggetti a una fortissima pressione migratoria.

HOTSPOT – PERCHÉ NO

L’idea di sistemarli nei Paesi a sud della Libia comporta accordi diplomatici. Un’impresa improba senza finanziamenti e considerando l’influenza francese in quelle zone: è uno dei tanti argomenti da sottoporre all’Ue, ma visti gli scontri con Emmanuel Macron è impossibile prevedere gli esiti. A margine, prima o poi bisognerà anche capire che fine farà la missione militare in Niger.

CAMPI IN LIBIA – PERCHÉ SÌ

Sta per aprire un centro gestito dall’Unhcr a Tripoli che ospiterà un migliaio di persone che possono ottenere il ricongiungimento familiare, il trasferimento verso altre strutture simili o il rimpatrio volontario. Le condizioni sono ottimali appunto perché gestito dall’organizzazione dell’Onu. Oggi sono poco più di 10mila le persone ospitate in centri analoghi nei vari paesi di transito mentre l’Unhcr chiede almeno 40mila posti. Va ricordato che l’Alto commissariato per i rifugiati ha riportato indietro dalla Libia verso i Paesi di provenienza circa 25mila persone con i rimpatri volontari assistiti.

CAMPI IN LIBIA – PERCHÉ NO

L’esistenza di quel campo a Tripoli non può nascondere che i trafficanti rinchiudono decine di migliaia di migranti in campi di prigionia. Un problema noto da molti anni, anche se “scoperto” da qualcuno solo l’anno scorso per contestare le prime iniziative italiane in Libia. Dunque Salvini non può definire menzogne le notizie sulle torture e sulle violazioni dei diritti civili perché sanno tutti che sono notizie vere e i campi dell’Unhcr sono una novità positiva in mezzo a molti problemi. Non è colpa sua se quelle prigioni esistono, ma negarne l’esistenza non aiuta ad affrontare il problema.

 

 

 

lega

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