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Tra sicurezza e prescrizione, la politica italiana dovrebbe trovare il tempo per occuparsi di industria. Tra i tanti settori che richiedono una riflessione strategica vi è senz’altro l’aerospazio, caratterizzato da alte tecnologie, competenze a lento accumulo, forti investimenti e – in molti casi – applicazioni militari, governative e duali. In attesa che vada a regime il modello di governance introdotto all’inizio dell’anno, che molto correttamente attesta le decisioni alla Presidenza del Consiglio, il primo caso da considerare è quello di Piaggio Aerospace, azienda ligure attiva negli aerei executive, nei motori aeronautici e, con alterne fortune, nei droni.

Proprio i droni, sui quali Piaggio puntava per un difficile rilancio, si stanno rivelando il suo tallone di Achille. Il primo progetto, noto come P.1HH, ha subito ritardi e difficoltà tecniche. Il secondo, noto come P.2HH, attende da mesi un contratto da 766 milioni per 10 sistemi destinati all’Aeronautica Militare. Senza questo ordine, Piaggio va incontro ad un futuro molto problematico ed al quasi certo disimpegno dell’azionista arabo Mubadala, che l’aveva acquistata proprio perché interessato ai droni. Proprio la richiesta araba di una sorta di “garanzia” sul prodotto, rappresentata dall’acquisto nazionale, è un ingrediente chiave dell’operazione. Ma è corretto, in un periodo di robusti tagli al bilancio, appesantire l’Aeronautica con una flotta di droni così impegnativa?

Anche ad un osservatore non esperto non sfugge che l’onere di acquisto dei velivoli incide in misura limitata rispetto ai costi di esercizio della flotta, che rendere pienamente operativi 10 P.2HH comporta uno sforzo molto duro per un’organizzazione ormai allo stremo, fiaccata da anni di bilancio sempre più magri proprio nella partita delle spese correnti. Tra l’altro l’Aeronautica vanta oggi una professionalità ed un’esperienza uniche in Europa, frutto di quasi quindici anni di attività operativa, anche in teatri difficili, pertanto il suo portafogli capacitivo, droni in primis, è già completo.

In questo quadro va individuata una soluzione diversa per un drone tutto italiano che sembra nascere più da esigenze industriali che militari. Per esempio, perché non pensare fin d’ora ad un utilizzo non militare dei droni, un utilizzo che negli anni a venire, anzi ben presto, conoscerà una vera e propria esplosione? Scenario che sarà certamente aggravato dal sicuro affermarsi – ve ne sono già i segnali – di un modello di gestione dei droni in cui ogni amministrazione creerà in casa propria una sua nicchia capacitiva, come sempre successo per esempio con gli elicotteri, i natanti, il trasporto executive ed altro. Con tutto ciò che ne consegue in termini di spreco, efficienza, ponderatezza delle scelte, standard formativi e così via.

Allora perché non cominciare a pensare ad una specialità non militare, che già oggi si intuisce diventerà preziosa in ambiti di sicurezza e protezione civile? Una sorta di “droni di Stato”, di proprietà della Presidenza del Consiglio e gestiti dall’Aeronautica Militare solo sotto il profilo tecnico-operativo. Questo avrebbe il pregio di sfruttare le competenze dell’Aeronautica e di attestare con trasparenza i costi ai reali beneficiari, nonché di sollevare i militari dal mettersi in casa un altro figlio da sfamare in momenti di cinghia sempre più stretta.

In conclusione, chi oggi è chiamato a decidere deve valutare con attenzione i benefici reali per la Forze Armate, l’onere doppio in questa fase di tagli, le soluzioni pragmatiche alternative. Possibilmente con un occhio attento alle prospettive future di utilizzo dei droni in scenari che si preannunciano ricchi, diversificati ed estremamente stimolanti.

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