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C’è un vertice più importante di quello tra Donald Trump e Kim Jong-un da organizzare per gli Stati Uniti, e perché no, per il mondo? Probabilmente sì: quello in cui il presidente dovrebbe ospitare il suo omologo Vladimir Putin. Ne parla il Wall Street Journal, giornale non troppo severo col trumpismo, e per questo sempre ben imbeccato — cita “fonti informate sul dossier”.

Nei giorni scorsi a Washington c’era John Huntsman, ambasciatore americano in Russia, rientrato a Foggy Bottom in via ufficiosa per preparare il terreno e riferire personalmente umore e qualche dettaglio agli uomini del Cremlino al rientro a Mosca.

Nei contatti russo-americani Huntsman è una figura nevralgica, e non solo per il ruolo. Per esempio, due settimane fa aveva invitato i top player delle aziende americane a partecipare al Forum economico di San Pietroburgo, feudo putiniano e appuntamento centrale per la diplomazia meno ufficiale del Cremlino. Pur rinunciando alla partecipazione a un panel a cui i russi lo avevano invitato (sarebbe stato troppo mettersi seduto a parlare con a fianco Viktor Velseberg, oligarca del cerchio magico di Putin, sotto sanzioni americane), ha visitato la conferenza, tenuto contatti, introdotto ospiti. La partecipazione americana è stata in sordina, ma si è trattato della prima volta dall’inizio della crisi ucraina che funzionari di Washington erano ufficialmente presenti.

Non sembra ancora esserci niente di concreto, secondo le informazioni del WSJ, mancano data e luogo, e come insegna l’on-off-on del vertice con Kim tutto può succedere. Però, mercoledì il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha parlato per la prima volta (al telefono) con il suo omologo russo, Sergei Lavrov, che in quei giorni si incontrava con Kim, mentre Pompeo vedeva quello che può essere considerato una specie vice del dittatore del Nord. Contatti incrociati, insomma, con il segretario americano che a dispetto della fama di falco agguerrito sta conducendo le dinamiche diplomatiche — nel pieno delle grazie di Trump e forte dell’esperienza acquisita da direttore della Cia.

Di certo, se quello col satrapo nordcoreano è un incontro che riguarda una crisi regionale, quello con Putin avrebbe una ricaduta certamente più “globale”, magari con ripercusioni anche sull’evolversi dei negoziati sul dossier nordcoreano — negoziati che a detta di Trump dovrebbero partire proprio dal vertice di Singapore del 12 giugno, e su cui Mosca ha già assicurato (per esempio a Tokyo) un proprio ruolo.

Tre i grossi temi in agenda: la crisi ucraina, su cui la Casa Bianca, seppur senza esaltazioni, fa continuamente sentire la presenza americana; la Siria, con una declinazione interessata certamente al ridimensionamento dell’Iran, come chiedono gli alleati d’oro mediorientali, Israele e Arabia Saudita (che per Trump vanno tutelati perché investono e collaborano con gli Stati Uniti); il controllo delle armi.

Ovvio che però l’argomento profondo è un altro: Trump ha speso un’intera campagna elettorale a dire che la Russia doveva essere considerata un partner e non un nemico, ma poi all’atto pratico la sua amministrazione ha proseguito, se non inasprito, la linea della precedente (per ovvie ragioni: l’interferenza alle presidenziali ha preso concretezza con le indagini dell’intelligence, la crisi ucraina continua spinta da Mosca, la Siria è un dossier sempre più incontrollabile, la Russia è stata definita al pari della Cina una “rival power” da combattere).

Su tutto il Russiagate, l’inchiesta che cerca di far luce su potenziali collusioni tra Trump e i russi, in cui il presidente aveva annunciato la sua testimonianza salvo poi cedere alla linea dei suoi legali che gli chiedevano di non farlo.

 

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