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A guardare la mappa dei sondaggi, il Parlamento europeo del dopo elezioni dovrebbe risultare quanto mai frastagliato. Dovrebbero crescere i Popolari e perdere terreno i socialdemocratici. I primi, rispetto alle previsioni del gennaio del 22, aumentano di una ventina di seggi, i secondi scendono di una decina. Ma insieme, ancora una volta, non raggiungono la maggioranza assoluta. Segno evidente che le famiglie politiche europee nel frattempo sono, a loro volta, se non aumentate, almeno non diminuite.

Circostanza quest’ultima che renderà quanto mai complesso la ricerca di un intesa per la futura governance. Che ha innanzitutto due principali punti di caduta: la scelta del Presidente della Commissione europea e quella del Presidente del Consiglio. Ma, poi, un effetto a cascata su tutti gli altri incarichi ministeriali. Senza contare quando succederà nel campo della difesa: visti gli sforzi indispensabili per dare all’Unione la deterrenza necessaria per proteggerla da nemici vicini e lontani.

E mentre la campagna elettorale anima le varie piazze del Continente, negli angoli più riservati dei Palazzi della politica e delle Istituzioni si ragiona su come ricomporre un puzzle di non facile soluzione. C’è, forse, un’unica certezza. Difficilmente il Presidente della Commissione o del Consiglio potrà essere rivendicato ed imposto dal gruppo politico, in questo caso i Popolari, di maggioranza relativa. Come pure risulta difficile ipotizzare una sorta di spartizione delle spoglie, come avvenuto in questa ed in altre legislature: ai Popolari la Commissione ed ai Socialdemocratici il Consiglio. Compresa la relativa variante: ai Socialdemocratici la Commissione ed ai Popolari il Consiglio.

C’è solo da aggiungere che il pregresso non aiuta. Dal 1979 in poi, data che segnò l’elezione diretta del Parlamento europeo, salvo qualche limitatissima eccezione, a guidare la Commissione europea furono sempre esponenti del Partito popolare o dei Socialdemocratici. Scelti nell’ambito di una granitica alleanza composta appunto dai due maggiori raggruppamenti e l’aggiunta, di volta in volta, come nel caso della Von del Leyen, di qualche gruppo minore. Unica variante, in questo schema duraturo, la diversa nazionalità dei singoli preposti. Che tuttavia non aveva impedito il prevalere di pulsioni burocratiche rispetto alla necessità di una gestione di ben più alto profilo.

Se oggi si parla di crisi del modello europeo, di cui le ultime regole sul Patto di stabilità e crescita ne sono la più evidente manifestazione, non si può certo negare che quella crisi abbia anche un padre ed una madre. E poco importa se poi le responsabilità furono più politiche che tecniche. Imputabili cioè alle figure dei leader dei Paesi più forti: il Cancelliere tedesco da un lato e il presidente francese dall’altro, uniti in quell’”asse” che di fatto ha guidato l’Unione in tutti questi anni. Fu soprattutto la scarsa personalità del Presidente della Commissione a far sì che la politica potesse occupare l’intero spettro decisionale, mettendo tutti gli altri fuori gioco. Si pensi solo all’incontro di Deauville.

Unica eccezione, per la verità seppure in un settore diverso ma non per questo meno importante (anzi!): Mario Draghi al vertice della Bce. Il solo ad imporsi con il whatever it takes alle spinte destabilizzanti dei mercati finanziari, che erano giunti a minacciare la stessa esistenza dell’euro. Ma solo dopo aver vinto l’opposizione interna nel board della Bce sul quantitative easing. Ed imposto una politica monetaria che rompeva gli schemi obsoleti di un rigorismo senza tempo. Decisamente un successo: ottenuto anche grazie all’appoggio di Angela Merkel. Evidenza, quest’ultima, che non contraddice, ma rafforza quanto sostenuto in precedenza. In politica le buone pratiche non nascono dal semplice quieto vivere, ma da confronto, anche duro se necessario, tra i diversi punti di vista.

Se questo è il retroterra, non sorprendono le voci sempre più insistenti in quel dell’Eliseo. In Francia le quotazioni per Mario Draghi alla Presidenza della Commissione europea erano presenti da tempo. In vista delle più ravvicinate scadenze elettorali, sono decisamente aumentate d’intensità. A farsene portavoce è stato recentemente il Politico con un titolo che non dà luogo ad equivoci: Macron vuole che Draghi sia al vertice dell’Ue – Parigi vede nel banchiere centrale italiano un alleato chiave nei suoi piani per aumentare la spesa pubblica e dare una scossa all’economia dell’Ue.

Le ragioni di una presa di posizione così netta sono evidenti. A monte di tutto il gelo di Monsieur le Président nei confronti di Olaf Scholz. Nella discussione sulle nuove regole del Patto di stabilità, la Francia aveva dovuto far buon viso a cattivo gioco. Far finta di aver mediato rispetto alle pressioni dei “frugali” (Germania in testa), in nome della vecchia grandeur, ma di fatto costretta ad accettarne le imposizioni. Regole che fanno male soprattutto a Parigi. Considerato che l’economia francese non sta vivendo un bel momento. Avendo i principali parametri fiscali fuori linea.

Secondo Eurostat, il suo debito pubblico, lo scorso anno, è risultato pari al 100,6% del Pil: debito sostanziale, in quanto maggiore al 90% del Pil, secondo le ultime declaratorie. A sua volta l’indebitamento è stato del 5,5 per cento. Ad un centimetro, quindi, dalla procedura d’infrazione se la situazione, grazie alle prossime elezioni, non cambierà. L’Italia, da questo punto di vista, sta leggermente peggio. Ma mentre in Francia i debiti verso l’estero ammontavano, nel 2023, ad uno stock del 36,6% del Pil, il Bel Paese poteva vantare crediti per un valore pari al 6,5%. Al di là di queste differenze, che pure contano, entrambi partner hanno comunque bisogno di una forte discontinuità rispetto alle politiche praticate in passato sotto l’egida dei Paesi “frugali”.

Sono queste le motivazioni più profonde che spingono Emmanuel Macron a spezzare una lancia nei confronti di un “tecnico”, come Mario Draghi, che non ha mai avuto paura di battersi per le proprie idee. Oggi indispensabili per evitare all’intera Europa di essere risucchiata nelle sabbie mobili di una situazione in cui solo Stati Uniti, Russia e Cina hanno dimostrato di saper giocare una partita, inevitabilmente destinata alla sua ulteriore marginalizzazione. Se non ad una vera e propria frantumazione.

Ha anche titolo per farlo? Secondo i sondaggi, precedentemente evocati, Re – Renaissance è il terzo schieramento politico, in Europa, dopo il Ppe ed il Pse. Gli si accredita, alle prossime elezioni, un centinaio di deputati, decisi a far pesare la loro presenza negli equilibri politici più generali. La scelta di una candidatura esterna, come quella di Mario Draghi, li porrebbe in una situazione di relativa forza. Non scegliamo un francese, ma una personalità che ha il pedigree necessario per il rilancio europea. Messa così è difficile contrapporre loro una candidatura di partito. Vista che la stessa Ursula, benché, non abbia fatto male, non ha certo brillato.

Resta solo da vedere chi sarà in grado di opporsi: magari suggerendo di dirottare l’ex Bce verso la Presidenza del consiglio, ruolo meno congeniale alle sue caratteristiche. Finora Giorgia Meloni è rimasta alla finestra. Amica di tutti e della stessa Von der Leyen ha assunto, tuttavia, una posizione di attesa. Prima di esporsi vuol vedere cosa uscirà dal responso delle urne. Gli si può, forse, dare forse torto?

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