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I recenti sviluppi e risultati dell’intelligenza artificiale generativa hanno spalancato nuove prospettive, in larga misura imprevedibili. Un etico informatico, già professore universitario di informatica, e un analista di politiche tecnologiche, in passato suo studente, si ritrovano dopo vent’anni e, attraverso un dialogo asincrono, affrontano il tema dell’impatto sociale dell’intelligenza artificiale e della tecnologia in generale. Tra policrisi e incertezze, quale opportunità migliore per proiettarsi verso il futuro, sognare e immaginare nuovi orizzonti?

Vincenzo Ambriola – Nel suo saggio Dominio e sottomissione, Remo Bodei parla di «schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale». Il suo atteggiamento verso le nuove tecnologie è, a dir poco, problematico quando afferma che «rivelano ora il proprio classico carattere di pharmakon, rimedio e veleno, e impongono una riformulazione dei compiti di facoltà che ritenevamo unicamente nostre – ragione, volontà, immaginazione – e che ora, emigrate all’esterno dei corpi viventi, modificano la nostra condizione di esseri».

Il 22 novembre 2022, OpenAI ha reso pubblicamente e liberamente accessibile in rete ChatGPT-3.5, un chatbot in grado di dialogare, tradurre o riassumere testi, rispondere a qualsiasi domanda. Per la prima volta, una macchina ha superato pienamente il test di Turing esibendo un comportamento intelligente, confrontabile a quello umano. Subito dopo si è aperto un ampio dibattito in cui il concetto più evocato è stato quello della “sostituzione”. Scenari apocalittici prevedevano macchine capaci di sostituire gli esseri umani nello svolgimento di attività di natura concettuale. Riprendendo le parole di Bodei, queste facoltà emigravano dai corpi viventi per innestarsi e crescere in fredde e potenti macchine computazionali. Filosofi, economisti, politici, futurologi hanno ripreso argomenti che sopivano da anni e li hanno discussi in mille dibattiti.

La prima domanda che ti pongo è questa: tra dieci anni, quali professioni scompariranno, perché efficacemente sostituite dalle macchine, e quali saranno quelle che nasceranno sulla spinta di questo progresso tecnologico?

Marco Bani – La “sostituzione” dell’uomo non è una novità introdotta da ChatGPT, ma una paura che cresce con l’avanzamento tecnologico. Dalla meccanizzazione dei telai tessili nel 1675, ci sono state preoccupazioni persistenti riguardo alla perdita o trasformazione dei posti di lavoro ogni volta che una nuova tecnologia veniva alla ribalta. In effetti, il termine “luddisti” si riferisce al movimento dei lavoratori tessili inglesi del XIX secolo che si opponeva all’uso di alcuni tipi di macchinari a basso costo, spesso distruggendo le macchine in incursioni clandestine. La storia, ovviamente, ha avuto un andamento molto diverso, poiché l’economia globale – e l’occupazione – sono cresciute in modo esponenziale nei decenni e nei secoli successivi al movimento luddista.

Non per questo possiamo pensare che il progresso tecnologico sia esclusivamente positivo. Pensiamo alle banche: i cassieri agli sportelli bancari degli anni ‘80 e ‘90 avrebbero avuto tutte le ragioni per credere che i bancomat li avrebbero resi obsoleti, sostituendo la parte più importante del loro lavoro: contare ed erogare contanti. Ma non è andata così. Anzi, gli sportelli bancari nelle aree urbane sono aumentati di oltre il 40%. Quello che non hanno fatto gli sportelli automatici, lo sta facendo la digitalizzazione del denaro, che sta rendendo superato il contante e, quindi, riducendo la necessità degli sportelli fisici, portando alla rottamazione dei bancomat e alla chiusura delle filiali, trasformando le rimanenti soprattutto in centri di consulenza finanziaria. Ogni avanzamento tecnologico ha la sua storia, che va analizzata senza estremismi, senza essere né apocalittici né tecno-ottimisti.

Quando si parla di sostituzione del lavoro dovuto allo sviluppo tecnologico, mi viene in mente un forte déjà-vu: ricordo quando a fine 2013 uscì un articolo di due economisti di Oxford, Frey e Osborne, che profetizzava che nei successivi dieci anni il 47% dei lavori negli Stati Uniti sarebbe stato a rischio automazione grazie all’intelligenza artificiale. Ne scaturì un dibattito globale che molti hanno estremizzato, preoccupando milioni di lavoratori, mentre altri hanno cercato di mitigare le preoccupazioni con altri dati.
Facendo un salto in avanti ai giorni nostri, quelle profezie si sono rivelate in gran parte sbagliate. La natura controintuitiva delle nuove tecnologie è tale che esse possono eliminare alcuni posti di lavoro – o parti di essi – ma creano anche nuovi posti di lavoro e consentono ai lavoratori, nei posti di lavoro esistenti, di essere più produttivi.

Mentre alcune categorie lavorative spariscono negli annali della storia, ne compaiono di nuove per riempire il vuoto. Uno studio dell’economista del MIT David Autor rivela la natura dinamica del mercato del lavoro: ben il 60% dei posti di lavoro che esistevano nel 2018 non erano presenti nel 1940.
Il punto chiave dell’effetto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro è che la nuova tecnologia non elimina i posti di lavoro, li riconfigura, il che significa che i posti di lavoro vengono trasformati, non eliminati. Ciò richiede che i lavoratori migliorino o riqualifichino le proprie competenze, ma non significa necessariamente che saranno permanentemente senza lavoro.

Invece di preoccuparci dei robot e delle macchine artificiali che ci rubano il lavoro, in questa trasformazione inevitabile, dovremmo chiederci: è davvero necessario che “umani” svolgano un lavoro ripetitivo, noioso, automatico, poco creativo che può essere automatizzato?

Occorre una riflessione più ampia su come adattare il mercato del lavoro alle nuove trasformazioni, consapevoli che il passo del cambiamento tecnologico non è mai stato così veloce, ma non sarà mai così lento.

Dal luddismo a ChatGpt, il lungo dibattito sul cambiamento dei lavori

Di Vincenzo Ambriola e Marco Bani

Un confronto centrato sulla “sostituzione” umana da parte delle macchine, tema riacceso con l’avvento di ChatGPT. Ecco la prima di quattro puntate firmate da Vincenzo Ambriola, Università di Pisa, e Marco Bani, Senato della Repubblica Italiana, sulle riflessioni riguardo l’impatto sociale dell’intelligenza artificiale

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