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La medicina, da millenni, accompagna l’uomo per restaurare la sua salute. Ai tempi della pandemia da Covid-19, il ministero della Salute incitava le Regioni a forti campagne di vaccinazione antinfluenzale per evitare il sommarsi delle due patologie. Ci si accorse, in quel periodo di forte domanda, che l’Italia faceva fatica a reperire le dosi richieste di antinfluenzale perché non produceva più questo vaccino. Eppure, solo dieci anni prima in Italia si producevano 30-40 milioni di dosi l’anno con picchi di oltre cento milioni. Nel 2015, al momento del passaggio delle produzioni di vaccini tra due grandi aziende farmaceutiche, Novartis e Gsk, a Siena, l’Antitrust europeo bloccò la cessione degli impianti dei vaccini influenzali, finiti nell’oblio e poi chiusi. Motivo per cui, ad oggi, l’Italia dipende al 100% dalle importazioni per prevenire l’influenza.

Più in generale, oggi esiste una dipendenza italiana ed europea dalle produzioni extra-Ue per soddisfare la richiesta di farmaci. Eppure avere la massima capacità produttiva integrale dei farmaci, specie quelli di largo bisogno, è un tema di sicurezza nazionale al pari della difesa, sia in chiave italiana ma ancor più in chiave europea. Se, difatti, in un quadro di grande contrasto fra Paesi si fermassero le importazioni in Ue/Italia dalla Cina e dall’India dei cosiddetti Active pharmaceutical ingredients (Api), cioè i semilavorati necessari per produrre gran parte dei farmaci di sintesi chimica – circa il 90% dei farmaci – di colpo l’industria europea sarebbe incapace di fornire centinaia di prodotti farmaceutici, inclusi moltissimi farmaci salvavita. Questo porterebbe al possibile decesso di moltissimi pazienti nell’arco di tempi relativamente brevi, in modo estremamente efficace e senza usare armi più o meno sofisticate.

Oggi più del 70% dei principi attivi (Api) usati in Europa dipende, direttamente o indirettamente, da produzioni in Cina o India; dei farmaci venduti in Unione europea oltre il 46% è importato. Sono evidenti i rischi che elementi geopolitici, economici, di emergenza sanitaria e di altra natura pongono a tutti noi cittadini europei ancor prima che italiani.

Ci sono quindi due elementi nel rischio dipendenza extra-Ue: Api e farmaci finiti. Gli Api sono la parte più inquinante e non la più ambiziosa da un punto di vista tecnologico, ma la loro manifattura si è progressivamente spostata in oriente, sulla spinta di costi inferiori (manodopera e anti inquinamento) e regolamentazioni meno stringenti.

Come si è verificato nel caso delle auto elettriche, il dominio concesso alla Cina nella produzione di batterie al litio ha portato al suo controllo del mercato delle auto full electric. Stiamo osservando un fenomeno simile nella produzione di farmaci finiti, con Pechino che sta registrando un’intensa crescita in questo settore. Quanto ai farmaci finiti, la situazione nell’Unione europea è meno pesante, anche perché una parte delle importazioni proviene da Svizzera e Gran Bretagna, che in una logica continentale sono a minor rischio. Ad oggi, inoltre, il principale esportatore di farmaci verso l’Europa sono gli Stati Uniti, ma bisogna comunque porre attenzione alla crescita di quelli in arrivo dall’Asia, Cina in testa.

Da inizio secolo la mancanza di farmaci nell’Ue è cresciuta a dismisura (di oltre 15 volte) e negli ultimi anni solo il 20-25% delle nuove terapie ha avuto origine in Europa, mentre a fine secolo scorso erano quasi il 50%. Cosa fare? Le istituzioni europee hanno da anni individuato il problema, ma al di là di programmi e legiferazioni varie, in questo campo la frammentazione fra i Paesi è evidente e rende difficile una programmazione comunitaria a sostegno della sicurezza sanitaria.

Dalla crisi pandemica in poi Germania e Francia, con importanti sussidi statali, hanno investito ingenti risorse in nuove produzioni farmaceutiche (tipico il caso mRna), mentre altri Paesi come l’Italia non hanno mostrato lo stesso trend. Questo è cruciale per l’Italia; da anni, infatti, la produzione nazionale di medicinali è la prima in Europa per valore, con grande contributo alle nostre esportazioni e al Pil. Ma il rischio è evidente, anche perché le nuove produzioni di farmaci biotecnologici, che entro il 2030 rappresenteranno oltre la metà dei nuovi prodotti farmaceutici, richiedono impianti molto diversi da quelli attuali.

L’Ue, al di là dell’attivismo commerciale per acquistare i vaccini durante la pandemia, sembra non avere la capacità politica di affrontare globalmente il problema, in una logica che dovrebbe puntare alla sicurezza europea. Oggi l’Unione europea rappresenta soprattutto un grande mercato, molto regolamentato, ma in riduzione sulla quota mondiale di ricerca e sviluppo del settore. L’Ue, infatti, non sta agendo sui veri fattori di intervento possibili e necessari, come gli incentivi al reshoring della produzione di Api; il supporto agli investimenti per rafforzare la produzione dei farmaci di sintesi quali ad esempio antibiotici e cortisonici; lo sviluppo coordinato di impianti biotecnologici. Questo accompagnato da stimoli crescenti alla ricerca e sviluppo e a una semplificazione dei quadri regolatori e normativi in controtendenza a ciò che stiamo osservando oggi.

Questa partita europea è simile al tema della Difesa comune, altrettanto difficile da imbastire fra interessi nazionali competitivi ma che, se non implementata creerebbe, durante gravi crisi internazionali, una dipendenza pericolosa per la salute dei cittadini europei.

Farmaci, rischi e pericoli della dipendenza extra-Ue

Di Fabrizio Landi

Oggi esiste una dipendenza italiana ed europea dalle produzioni extra-Ue per soddisfare la richiesta di farmaci. Eppure, avere la massima capacità produttiva integrale dei farmaci è un tema di sicurezza nazionale al pari della difesa, sia in chiave italiana ma ancor più in chiave europea. Una partita difficile da imbastire fra interessi nazionali competitivi ma che, se non implementata, creerebbe una dipendenza pericolosa per la salute dei cittadini europei. L’analisi di Fabrizio Landi, presidente Fondazione Toscana life sciences

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