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La prima volta di Roberto Fico in Vaticano è stata un confronto con padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, in occasione della presentazione del volume di Limes “Francesco e lo stato della Chiesa”. Un titolo geniale, visto il gioco lessicale sul significato del termine “stato”: certamente qui il termine “stato” significa “la condizione”, ma accenna anche all’istituzione statale.

Dopo che il giornalista Piero Schiavazzi, di Limes, ha presentato gli ospiti (schierato in prima fila tutto lo stato maggiore del Movimento 5 Stelle, i ministri Trenta, Tria, Bonisoli e Fraccaro), sottolineando che il presidente Fico era arrivato a piedi nella sala del vicariato vecchio, varcando per la prima volta il confine tra Italia e Città del Vaticano,  per trovare il modo di concentrarsi e anche di gestire un po’ la tensione per l’esordio, pochi si aspettavano che il direttore de La Civiltà Cattolica avrebbe trovato il modo per rendere omaggio all’efficacia del titolo del quaderno di Limes ma anche per suggerirne un altro: “Francesco e il moto della Chiesa”.  “Moto” sarebbe suonato più in linea con l’ecclesiologia di Francesco, verrebbe da dire, visto che lui è il papa che dall’Evangelii Gaudium in poi ha insistito tantissime volte sulla superiorità del tempo rispetto allo spazio. Avviare processi è più importante per la Chiesa che gestire spazi, ha ricordato Spadaro, ribadendo che chi dopo cinque anni si aspetta ancora che la Chiesa costruisca il suo ospedale, cessando di essere l’ospedale da campo di cui ha parlato il papa, non ha capito nulla della Chiesa, che o è ospedale da campo o non è più Chiesa.

Di qui Spadaro ha fatto discendere le tre priorità di questo pontefice: curare i muri, parlare con tutti, affrontare la questione migratoria, vera questione politica globale del tempo presente. Che i muri, nel mondo ce ne sono centinaia, siano ferite da curare Bergoglio lo ha indicato con gesti e azioni, come quando celebrando la messa a ottanta metri dal confine tra Messico e Stati Uniti ha creato una comunità orante transfrontaliera capace di curare quel muro che divide la carne del popolo di Dio, di fratelli nell’umanità.

Ecco perché le parole del direttore de La Civiltà Cattolica si sono fatte cultura politica e polemica dura sull’attualità quando commentando suggestioni governative sul crocifisso da esporre in scuole, uffici pubblici e porti -chiusi alle Ong- ha ricordato che il crocifisso non è mai un simbolo identitario, simbolo dell’io contro l’altro: mai. Si è sentito qui la eco del suo cinguettio di poche ore prima: “Usare il crocifisso come un Big Jim qualunque è blasfemo. La croce po’ segno di protesta contro peccato, violenza, ingiustizia e morte. Non è mai un segno identitario. Grida l’amore al nemico e l’accoglienza incondizionata. E’ l’abbraccio di Dio senza difese. Giù le mani.”

Queste parole spiegano però anche la centralità di un’altra affermazione di padre Spadaro, che in un certo senso ha fatto capire che, al riguardo delle riforme, chi assolutizza l’idea di un papa senza progetti sbaglia, anche Francesco ha un “progetto”: riportare Cristo al centro della Chiesa. Così se le riforme materiali le farà lui, Cristo, non il papa, la riforma prioritaria, quella di passare dalla centralità dell’imperatore, dalla Chiesa costantiniana, alla Chiesa di Cristo, Chiesa di Betlemme, del bambino nato tra i pastori e non nei palazzi, è una riforma dei cuori e la fa il popolo di Dio con il suo pastore universale, quello che ha parlato dei santi non come eccezione apicale, ma come “santi della porta accanto”.

Le sollecitazioni poste da Spadaro alla terza carica dello Stato non erano poche: tutte cortesi, certo, ma dentro il velluto c’era la chiarezza del vangelo letto da chi pochi giorni fa ha documentato che chi apprezza la teologia della prosperità, come lo Steve Bannon che tanto apprezza questo esecutivo italiano, propala un vangelo estremamente diverso da quelli di Matteo, Luca, Marco e Giovanni. La politica era dunque presente e Roberto Fico ha cercato di offrire una visione diversa da quella oggi prevalente. Innanzitutto ha colpito la sua convergenza con Spadaro sul significato del Crocifisso: “Il crocifisso significa anche amore per gli altri: bisogna uscire dalla logica del nemico”, ha detto, sposando poi anche le tesi dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, per il quale sono gli stati coloniali ad affamare ed aver affamato i paesi e i popoli africani. La fortissima omelia di monsignor Lorefice, che è parso indicare nei colonialisti i veri “migranti economici”, è echeggiata nella ricetta offerta dal presidente Fico, che ha proposto una sorta di proporzionale migratoria, dando carico a ogni paese di una quota di migranti direttamente proporzionale al proprio passato (e presente) coloniale. Un discorso inatteso, che certo ridimensiona ma non cancella il ruolo italiano. Comunque, davanti a tanti ministri, Roberto Fico ha teso a offrire una lettura consonante con quella “bergogliana”, ricordando la centralità della battaglia svolta dal suo movimento per l’acqua pubblica e convergendo anche sull’idea tutta “franceschista” di passaggio europeo da abitanti a cittadini. Il  mio impegno politico, ha ricordato Fico, è stato per anni proprio quello di costruire questo passaggio.

Non si poteva chiedere alla terza carica dello Stato di soffermarsi, in quanto tale, su come un’idea di cittadinanza possa escludere chi è nato qui da chi qui lavora senza essere nostro concittadino. Come non si poteva chiedere a lui di soffermarsi su alcune incongruenze tra assistenzialismo e prospettiva di crescita, sebbene qualche cenno alle risorse finite e alle ricerche energetiche lo abbia fatto.

L’obiettivo dell’incontro di ieri era verificare se nell’Italia di oggi vi sia un terreno di confronto sui valori indispensabili per capirsi.

L’invito finale di Lucio Caracciolo a fare proprio l’appello di Papa Francesco ad assumere lo sguardo di Magellano, guardando a noi stessi partendo da fuori, potrà essere recepito domani, se si saprà sviluppare un confronto politico, culturale, spirituale.

 

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